Mediterraneo, storia fatta di piccole storie: gli Aversano e Palmarola

Mediterraneo, isola di Palmarola storie di uomini.

Il Mediterraneo come mi diceva Predrag Matvejevic è fatto di grandi storie. Ma soprattutto anche di piccole storie. Piccole storie che hanno dato il loro immenso valore alla formazione di questa grande umanità mediterranea. Piccole storie che hanno fatto una grande civiltà. Una umanità che ha popolato rive e isole. Che ha costruito la civiltà mediterranea.
La cultura mediterranea. A cui apparteniamo degni e fieri.

Passeggiando qualche sera fa per il porto di Ponza con l’amico Antonio Aversano, e apprezzando la sua incommensurabile bellezza architettonica, nata dall’ingegno di Antonio Winspeare, ingegnere del tempo borbonico, ma anche evidenziando, nostro malgrado, le brutture e la barbaria di questa modernità, ho chiesto ad Antonio di raccontare qualche storia vecchia del padre e della sua famiglia durante la seconda guerra e subito dopo gli anni delle difficoltà.

Storie di una famiglia, gli Aversano, che viveva gran parte dell’anno nella selvaggia, disabitata e primitiva Palmarola. Strappando alla terra e al mare con la dura fatica, una dignitosa sopravvivenza, tra silenzi, solitudini e abbandoni. E soprattutto tanta tanta fatica. Ma anche tanta tanta libertà.

Una vita di sacrifici che rendeva l’uomo stanco ma felice e forte di affrontare un’esistenza su isole disabitate. Una vita dura e difficile, ma che ha dato all’uomo le radici di un’evoluzione. Una vita direi anche alquanto comunista nei valori e termini sociali.

La vita viene dal mare. La cultura viene dal mare. L’amore viene dal mare.

Proprio della cultura ellenistica era l’uomo che si avventurava a scoprire e vivere nuove rive e nuove isole, fondando città e civiltà.

A loro insaputa gli Aversano, come gli Aprea e gli Amalfitano, provenienti da Ponza, l’isola maggiore delle ponziane, erano ereditari di una emigrazione, anche se temporanea, che partiva dagli albori della civiltà mediterranea, la civiltà precedente a quella omerica.

Siamo negli anni ’40, quando gli Aversano della contrada di Sopra Giancos, vivono, gran parte dell’anno, sull’isola di Palmarola in località Grotta dell’acqua. Le maggiori alture dell’isola. Un luogo in cui si ritorna indietro nel tempo.

La parte alta dell’isola dove è possibile coltivare vigneti, ortaggi e pascolare bestiame.
Sulla riva hanno anche una piccola barca da pesca. Vivono in case-grotte e qui trascorrono gran parte dell’anno. Circa dieci mesi.

Una vita sull’isola di Palmarola vissuta di cose essenziali. Qui non esiste il superfluo, l’inutile. Le isole sono luoghi che custodiscono l’essere primitivo, l’origine. Nelle isole tutto si ama. Sulle isole o ami e condividi o sei un perdente.

Arcangelo Aversano e Luigi Aversano li conobbi da ragazzo. E ho dei piacevoli ricordi di due uomini di statura e virtù superiori. Gente venuta da stirpe omerica, uomini della nave Argo, uomini di Giasone.

Loro con le famiglie, a Palmarola avevano fondato delle vere piccole comunità, dedite alla coltivazione della vigna. Biancolella e Guarnaccia importate direttamente da Ischia. Ma soprattutto legumi. A Palmarola si vive non si sopravvive.

Con piccole barche a remi, trasportavano le merci a Capobianco a Ponza, dove avevano una piccola grotta scavata nel tufo bianco.

Capobianco nel mio immaginario acquista una dimensione dell’Oltre, in quanto Federico Fellini ci girò molte scene del Satyricon.

Da Capobianco la merce raggiungeva a spalla la località Faraglioni dove c’era la miniera di Perlite, e da lì con gli asini arrivava alle loro case Sopra Giancos.

A Palmarola le famiglie per mantenersi allevavano conigli, galline, capre, qualche mucca, e poi nelle stagioni propizie si praticava la cacciagione.

Nella pesca, in un mare estremamente ricco, si praticava la pesca delle aragoste e seppie. Queste venivano conservate nelle nasse tenute sotto costa, e poi mandate a Ponza e di qui a Marsiglia con i bastimenti dell’epoca.

Ogni giorno la barca veniva tirata a terra, proprio come ho visto sulle coste dell’Africa occidentale.

Luigi mi raccontava che da Palmarola trasportavano, sempre su piccole barche a remi, anche le fascine che venivano utilizzate dai fornai di Ponza.

Spesso sottocosta ci stavano anche degli affondamenti, dovuti a mareggiate improvvise e soprattutto alla precarietà delle barche.

I contadini di Punta Fieno e le barche dalla spiaggia di Chiaia di Luna andavano in loro soccorso. Venivano recuperati gli uomini e le fascine e qualche volta anche le piccole barche.

Durante la guerra e soprattutto durante lo sbarco di Anzio, la vita a Palmarola si arricchì di inaspettate avventure. Dando agli uomini quella dimensione, che solo la tragicità degli eventi può dare. Così gli uomini con la loro dignità, il coraggio e i valori, danno alla storia il supremo sapere. Danno lustro e cultura all’uomo e alla loro vita. Da Palmarola questa gente, mogli mariti e figli, assistono ai bombardamenti sulle rive di Anzio.
E qualche volta anch’essi vengono mitragliati da aerei tedeschi mentre fuggono nelle grotte dove si ricovera il bestiame.

Durante un giorno di pesca a sud dell’isola, il mare era avvolto in una fitta nebbia e assordante silenzio. Quando Luigi e Arcangelo sentono delle grida straniere venire dal quiete mare di acqua e di nebbia. Loro andarono incontro a queste grida di aiuto quando comparvero due militari tedeschi naufraghi di un aereo abbattuto dagli alleati. Questi, piangendo di disperazione, ormai allo stremo chiedevano aiuto.

I quattro uomini stavano sulla piccola barca, non si chiedevano chi fosse il nemico e cosa potesse accadere. I quattro uomini, figli di un Dio superiore, amavano la vita. Fratelli di una sola razza si strinsero tra le piccole murate di quella barchetta.

Luigi e Arcangelo a remi, da Palmarola portarono i due naufraghi a Ponza, dopo averli assistiti e dato loro da mangiare.

Ogni giorno nelle mattine di primavera i due andavano a pescare. Spesso sulle rive, gli abitanti di Palmarola trovavano scatole di cibi e oggetti vari provenienti dalle rive di Anzio. Che la corrente aveva trasportato.

Donne e bambini perlustravano le rive dell’isola a caccia di questi bottini. Ma spesso si incontravano anche resti umani. Allora si chiamava qualche pescatore di passaggio che provvedeva a trasportare questi sfortunati a Ponza.

Il mio amico Antonio, figlio di Luigi e nipote di Arcangelo, da bambino ha vissuto la sua Palmarola. Dove si dava da fare ad aiutare la famiglia nelle varie attività. Durante i mesi di giugno e luglio bisognava fare una precisa lotta ai topi, altrimenti metà del raccolto, soprattutto l’uva andava perduto.

Antonio mi racconta che spesso veniva ripreso dal padre, in quanto a pesca doveva prendere solo il necessario alla sopravvivenza della famiglia. A Palmarola, non esistevano frigoriferi, telefoni e radio, né corrente elettrica. E tutta la vita avveniva nello scorrere del giorno e delle sue ore. L’alba, le ore pomeridiane, la sera, la notte.

Si andava sugli scogli, l’attesa poteva durare anche giorni, per avvistare un pescatore che li portasse a Ponza.

Mentre gli uomini invecchiano e le loro forze vengono a mancare, lentamente gli Aversano abbandonano Palmarola.

I più giovani emigrano in America. Arcangelo a Ponza si dà all’allevamento di mucche. Luigi si imbarca, mentre Antonio va a studiare a Procida.

Con Arcangelo e la moglie Lucia Silvestri ebbi un’amicizia che si protrasse fino alla fine dei loro anni. Ad ogni parto di un vitellino mi chiamavano affinché potessi assistere e fotografare l’evento. C’era sempre una grande festa nella stalla.

Io vivevo quel mondo virgiliano che mi nutriva più di ogni altra cosa e dentro di me il tempo e gli eventi portavano una vita di poesia e amore per la natura e il suo scorrere delle stagioni.

Col tempo a Palmarola, sulla costa di ponente, dove sta la spiaggia, la famiglia ponzese Di Scala-Parisi aprì un piccolo luogo di ristoro per navigatori solitari e gente di passaggio. Allora la vita di Palmarola si trasferì da questo versante. E le comunicazioni con Ponza partivano dalla spiaggia. E si fecero più frequenti.

La motobarca Santa Rita fu la prima a fare la spola tra Palmarola e Ponza. Aurelio Conte fu il primo comandante della Santa Rita, ma presto lo sostituì per motivi di età Pompeo Di Giovanni. Persona molto perbene, che ho personalmente conosciuto.

La Santa Rita aveva anche un compito fuori dall’obbligo che gli era di pertinenza. Portare a Palmarola e poi la sera riportarlo a Ponza, il primo e il più grande pescatore subacqueo che Ponza abbia avuto. Un certo Gavino, che ben presto diventò una leggenda per tutti i giovani ponzesi e non solo.

Alla famiglia Aversano apparteneva Maria Candida Romano che a Palmarola viveva da sola. Era rimasta vedova. E il figlio le era morto nell’affondamento del piroscafo Santa Lucia a Ventotene. Mitragliato dagli inglesi durante la guerra.

Lei viveva a Palmarola in completo isolamento e autogestione. Antonio quando finiva la scuola, da piccolo spesso veniva mandato a fare compagnia alla zia Maria Candida.

Negli anni ’70 Arcangelo Aversano non può fare a meno della sua Palmarola. Ormai anziano, ma sempre con una volontà e forza interiore, tipica degli uomini che la vita l’hanno faticata, si trasferisce di nuovo a Palmarola.

Ci vive per pochi mesi, durante la stagione della caccia. Si sparge la voce che Arcangelo è ritornato. Il mito è tornato, resiste.

La gente, soprattutto i cacciatori e uomini solitari lo vanno a trovare. La sua fama di uomo buono e accogliente, esce dall’isola e arriva in tutta Italia.

Ora da nord a sud dell’Italia, i cacciatori e non solo vogliono andare a vivere con Arcangelo. Dove si vive di caccia, di pesca e di una vita frugale. Ma libera e immensamente dentro una natura selvaggia. E poi Palmarola offre grandi battute di caccia, soprattutto di tortore, e grandi silenzi.

Ad Arcangelo dava una mano la nipote Maria, figlia di Luigi e sorella di Antonio, nella gestione di questa vita provvisoria.

Un giorno dopo un lungo viaggio di fatiche e avventure, sbarca a notte fonda inaspettatamente, Enrico Fasola da Terni. Mezzo viaggiatore avventuriero e quasi naufrago. Ma accanito cacciatore.

Arcangelo accoglie in una grotta Enrico. Gli dà da mangiare e lo preserva dall’incuria del viaggio avventuroso. Al mattino gli occhi di Maria ed Enrico si incontrano. Nasce la più bella storia d’amore che Palmarola abbia visto nascere.

La storia di Maria ed Enrico ormai anziani vive tutt’ora. Storie mediterranee in una piccola isola, storie di vita. Fatiche, epicureismo, libertà e avventura. Gioia e dolore, vita e morte.
E soprattutto grandi amori.

Così ancora per sempre ritorniamo ad Omero. Il grande capo. Dopo di lui niente di nuovo, hanno scritto a ragione i grandi della letteratura.

Nella mia Odissea ci ho messo anche la vecchia Palmarola. Quella pura e primitiva. l’isola degli uomini buoni, l’isola dei Feaci. E naturalmente la storia degli Aversano. Arcangelo e Luigi uomini omerici. Venivano dalle mura di Troia, da Micene. Hanno viaggiato nella grande civiltà mediterranea. Hanno dato lustro, umanità e saggezza ad un’isola, che di allora gli rimane solo il nome. Che i Proci dell’oggi hanno divorato. Purtroppo non arrivò un Ulisse a difenderla.

Dico ad Antonio mentre finisce il suo racconto: Il fatto che noi siamo affascinati e interessati a storie di uomini che hanno vissuto molto della loro vita in solitudine, come anche una scelta personale, è perché riteniamo, come scriveva Fabrizio De André, che questo modo di vivere la solitudine, sia l’unico stato mentale, spirituale e fisico in cui riusciamo ancora ad ottenere un contatto con l’Assoluto. Fuori e dentro di noi stessi.
Lontani dalla realtà nemica dell’uomo.

La solitudine come scelta, e non come isolamento che è sinonimo di abbandono.
Qualcosa che decidono gli altri. Noi che viviamo per isole abbiamo bisogno di un Assoluto fuori dalle mode religiose. Ed ecco allora, che ancora l’eterno Omero giunge a soccorrerci.

La storia si fa favola, si fa Mito, e nutre quella parte di noi rimasta bambino. Ma che serve assolutamente a vivere. Senza si scompare.

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De Luca, l’isola, il rapporto intenso con il mare e il sentimento

Fonte principale d’ispirazione per il poeta resta sempre l’isola e soprattutto “i tempi perduti”, dove anche nelle Ponziane c’era più miseria ma c’erano valori ormai persi.

Intenso poi il rapporto con il mare, il Mediterraneo dove De Luca si sposta passando di porto in porto.

Per non morire

arrivare dal mare
non è un arrivo qualunque

in questa isola sperduta
nell’alto mare
tra le pareti spesse
più volte intonacate di bianco

la calce cotta dal sole
dal sale del libeccio e del mezzogiorno della terra
si gonfia e cade

il vento da sud
cambia di continuo

è difficile prendere sonno
dove ci si commuove

il rumore delle onde entra
agli infissi della porta

si sente tra gli arbusti
sopra i muri
sulla luce della candela

la luce del faro
dal bastione di basalto
nella notte si perde nel vuoto

la luce ogni nove secondi
entra nel cucinino
sulla dispensa

sulla pentola che cuoce lo scorfano rosso

sul pane posto al tavolo della eucaristia

i cani quieti sono sotto il letto

Come panni stesi al sole del mattino
merluzzi e musdee sardine e polipi
si asciugano al sole e al vento
così facciamo il giro del mondo

l’odore del Critmo e dell’aglio selvatico entra dalla finestra

niente proci niente infedeli
da questa parte di fineterra
che ci protegge

io e te soli
sotto la vecchia coperta di lana
davanti al mare
a proteggerci dal mondo

dalla lunga notte

Passano le Diomedee
ascoltiamo il loro canto nuziale
nel ritorno ai nidi

e noi che diciamo
le parole importanti
il silenzio che rimane

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De Luca, riflessioni sul pensiero di Russell e sulla via per la vera felicità

Bertrand Russell, gli autunni della filosofia al Liceo Denza di Napoli.

Pensando a Pasolini intellettuale e filosofo: ho sempre il suo pensiero presente. Sono un uomo che ha letto i classici, sempre li leggo e li porto con me. Diciamo che sono una strada importante da percorrere.

Sono uno che raccoglie l’uva e fa il vino. Amo contemplare il sole sul mare e i paesaggi della terra. Amo pensare all’origine delle cose. Amo la parola. E l’amore. E mi sento molto vicino all’uomo e alle sue sofferenze. E come scrisse Fernando Pessoa sono uno di quegli uomini che ridono molto, tanto quanto hanno pianto molto.

Quindi di questo mondo creato dalla violenza, dalla necessità del consumo, dalla volgarità, dalla fretta di arrivare, un mondo che non si dà dignità ed etica, che guarda agli interessi di pochi a sfavore della stragrande maggioranza dei popoli della terra, non so che farmene. Anzi lo schifo. Lo detesto. Lo combatto. Gli sto lontano. Perché anche la lontananza a volte è rivoluzione.

Questi ideali pasoliniani sono una filosofia di vita. Ed io vivo da filosofo come qualcuno dice. La filosofia è la vita, nasce dalla vita e la coinvolge. Essa porta una nuova vita. La filosofia è rigeneratrice e allo stesso tempo genera. Genera l’uomo. Senza filosofia l’uomo col tempo è destinato a scomparire. La filosofia è una forma di pratica rivoluzionaria perché mette in discussione l’essere ovvio, e porta il pensiero alla sua radice.

Il potere ha paura della filosofia e a maggior motivo dei filosofi così come dei poeti. Come un albero per essere sano e bello ha bisogno di buone radici, così è la vita. La filosofia mette alla vita buone e sane radici per raccogliere virtù e una sana etica di convivenza.

Della filosofia come ogni anno, l’autunno mi porta ricordi dolci che mi fanno stare bene, e arricchiscono la mia sete conoscitiva. Anche perché sento che da sempre ho una innata propensione a questa arte di scrutare il pensiero.

La memoria di ogni autunno mi riporta agli anni giovanili favolosi del Liceo a Napoli. Finiva l’estate a Ponza e il ritorno a scuola non poteva essere sempre allegro. Soprattutto se poi la scuola aveva una certa severità ed era abbastanza impegnativa. Era il Liceo Classico Francesco Denza dei Padri Barnabiti a Napoli. Ma in quel frastuono di fine estate, triste e malinconico, qualcosa mi dava conforto ed entusiasmo per tornare a scuola.

Ritornare a Napoli. Riprendere a tradurre dal latino, la poesia greca, e riprendere gli studi di filosofia con le infinite disquisizioni che duravano ore, giorni e mesi. I profumi e i paesaggi dell’autunno nella Posillipo virgiliana e gli studi di filosofia sono rimasti nella memoria. E ogni anno le stagioni di adesso si presentano come le stagioni di allora. Quasi a camminare insieme io, la poesia e la filosofia.

Si perché la scuola dei Barnabiti prevedeva la presenza della filosofia ovunque. Tutta la vita di quei giorni era un continuo filosofare. Pensare e pensare sempre in ogni ora del giorno, per ogni materia di studio, per ogni cosa che accadeva o potesse accadere. L’ idea veniva prima di ogni azione.

Il linguaggio esistenziale prevedeva il pensiero primario. In questi tempi che il mondo vive momenti difficili e di sofferenza, voglio pensare al filosofo inglese Bertrand Russell. Il filosofo che molto ha condizionato la filosofia del secondo novecento.

Soprattutto in filosofi come Noam Chomsky, Karl Popper e Piergiorgio Odifreddi e non solo. Noam Chomsky è tuttora un mio illustre intellettuale di riferimento. Un maestro di vita al pari di Zygmunt Bauman, di Albert Camus e di Jean Paul Sartre. Spero che viva ancora tanto perché il mondo ha bisogno di Noam Chomsky vivo.

Russell sposò la causa pacifista, si schierò apertamente contro la guerra in Vietnam e tutte le guerre, e ogni totalitarismo. Non fu tenero assolutamente con il comunismo sovietico e la Cina di Mao, dove a lungo aveva viaggiato. E in economia sposò le teorie di John Maynard Keynes. Teorie al contrario di quelle dominanti oggi. Teorie che tanti disastri stanno combinando nel mondo.

Bertrand Russell fu un liberal socialista, sempre molto critico nei riguardi delle religioni ed in particolar modo del cristianesimo e delle religioni monoteiste. Andò anche in galera varie volte per le sue critiche al mondo del potere cattolico. Al mondo di una vita di rassegnazione.

Scrivere di Russell filosofo non è un compito facile e ci vuole ben altra conoscenza che non ho né mi compete. Voglio parlare di Russell in alcuni suoi interventi pubblici che in questo momento penso siano più attuali che mai. Analisi russelliana in cui la preoccupazione è sempre l’uomo e il suo destino, la strada da percorrere.

Così scrisse Bertrand Russell: “Tre passioni, semplici ma straordinariamente forti, hanno governato la mia vita: la sete d’amore, la ricerca della conoscenza, e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità. Queste passioni, come venti possenti, mi hanno spinto ora qua ora là, in un volo capriccioso, facendomi vagare sopra un profondo oceano di angoscia, fino a che ho raggiunto il limite estremo della disperazione. Ho cercato l’amore, soprattutto perché l’amore è estasi, un’estasi talmente grande che spesso sarei stato pronto a sacrificare il resto della mia vita in cambio di poche ore di tale gioia. E poi l’ho cercato perché mitiga la solitudine, quella terribile solitudine nella quale una coscienza tremante vede, al di là dei confini del mondo, il freddo e tenebroso abisso senza vita. E infine l’ho cercato perché nel congiungimento d’amore ho visto, come in una mistica miniatura, la visione che prefigura quello stesso paradiso che hanno immaginato di vedere i santi e i poeti. Questo è quello che ho cercato, e, sebbene possa sembrare troppo per la vita umana, questo è ciò che, alla fine, ho trovato. Con eguale passione ho cercato la conoscenza. Ho desiderato comprendere i sentimenti degli uomini. Ho desiderato sapere perché le stelle brillano e ho tentato di afferrare la regola pitagorica che esprime numericamente ogni cambiamento nell’eterno fluire delle cose. I miei desideri in questo senso sono stati esauditi, ma solo in piccola parte. L’amore e la conoscenza, per quanto mi è stato dato di goderne, mi hanno sollevato fino a toccare il paradiso. Ma, ogni volta, la pietà mi ha ricondotto sulla terra. L’eco delle grida di dolore risuonavano nel mio cuore. Bambini affamati, vittime torturate dai loro oppressori, anziani indifesi considerati un odioso fardello dai loro figli; e tutta la solitudine, la povertà e il dolore, si facevano beffa di ciò che la vita umana avrebbe dovuto essere. Desidero fortemente alleviare i mali del mondo, ma non posso farlo e ne soffro. Questa è la mia vita. L’ho trovata degna di essere vissuta, e, se ne avessi la possibilità, sarei felice di viverla di nuovo”.

In uno dei suoi libri sulla felicità Russel traccia poi accurate analisi sull’uomo di questa civiltà, tentando delle risposte. Perché in questa società del benessere e della rassegnazione l’uomo è preso da una inconsapevole infelicità, quando già non è consapevole. La competizione, la noia e l’eccitamento, la fatica, l’invidia, il senso di colpa, la mania di persecuzione e la paura dell’opinione pubblica. Queste sono argomentazioni che Russell indica all’uomo per liberarsi dai cappi del sistema dominante.

Russell è precursore dei tempi che viviamo e suggerisce soluzioni. L’uomo deve imparare a non aver paura per avere una esistenza meno faticosa.

Russell conclude il saggio sulla felicità con queste parole: “L’uomo felice è colui che non soffre di alcuna di queste mancanze di unità e la cui personalità non è né in contrasto con se stessa, né in contrasto con il mondo. Un uomo siffatto si sente cittadino dell’universo, gode liberamente dello spettacolo che offre e delle gioie che arreca, non turbato dal pensiero della morte, perché non si sente realmente separato da coloro che verranno dopo di lui. È in questa profonda unione istintiva con la corrente della vita che si trova la massima gioia”.

Trovare l’amore per le passioni, per l’uomo, per l’altro. Non essere individui isolati ma membri di una grande comunità senza meschinità ed egoismi. Russell libera la religiosità dai lacci delle religioni totalitarie e la consegna libera e laica all’uomo affinché viva meglio. Una religiosità che appartiene a tutti.

Russel ha ispirato una nuova religiosità, un nuovo ateismo. Un uomo che cerca il suo essere libero. Solo per essere più felice. Tutti dovremmo sapere più di filosofia, e meno di barbarie dominanti. Seguire il consiglio di Aristotele quando dice che bisogna comportarsi da immortali e vivere secondo la parte più nobile che è in noi. Il contrario: rischiamo l’annientamento.

In un trattato sui principi di riforma sociale Russell scrive: “Gli uomini temono il pensiero più di ogni altra cosa al mondo più di una rovina o della morte stessa. Il pensiero è rivoluzionario e terribile, non guarda ai privilegi, alle istituzioni stabilite. Il pensiero è senza legge, indipendente dall’autorità e dalla saggezza degli anni. Il pensiero può guardare nel fondo degli abissi e non avere timore. Il pensiero è grande e acuto e libero, è la luce del mondo, la più grande gloria dell’uomo. Se il pensiero non è bene di molti ma privilegio di pochi, lo dobbiamo alla paura. È la paura che limita gli uomini, paura che le loro amate credenze si rivelino delle illusioni, paura che le istituzioni con cui vivono si dimostrino dannose”.

Bertrand Russell oltre ad essere un grande filosofo è un maestro di vita. Va seguito.

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Giornale di bordo, il sogno e i nuovi versi del ponzese De Luca

Sono tanti gli spunti per un poeta e i sogni sono tra questi.

E’ stato così che Antonio De Luca, di Ponza, sognando l’Antigone di Sofocle ha trovato l’ispirazione per i suoi ultimi versi.

Il poeta è tornato ai giorni trascorsi a Buenos Aires e alla rilettura di quell’opera all’interno della nota libreria Ateneo.

Da lì, al risveglio, quella voglia irrefrenabile di prendere carta e penna, facendo prendere forma a “Giornale di bordo”.

Fuggitivi e invisibili
chiamati a dire
della perfezione divina
e la miseria umana

a raccontare di Antigone e Medea
di Odisseo e Itaca

il diritto naturale
il diritto indiscutibile

stiamo per isole
o isolate strade di città
ben nascosti
raccolti in silenzio

pietre ammassate dal tempo
ai margini degli abissi

dove la vita
ci appare

erranti
di esistenze inquiete
scriviamo
la parola e il verso
parole di preghiera e amicizia
di solitudine e amore
la rabbia e l’insurrezione
la vita umana

resistere resistere
liberi e lontani

imploriamo il Fato
la cultura antica
il tempo e l’abbandono
la dimenticanza
le cose e la bellezza
il Mito

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De Luca e le riflessioni a Ponza sulla nuova tirannia descritta da Onfray

Riflessione sul libro “Teoria della dittatura” del filosofo francese Michel Onfray, appartenente alla corrente dell’edonismo e del post-anarchismo.

Nel libro Teoria della dittatura, Ponte alle Grazie editore, il filosofo francese Michel Onfray, che da sempre seguo, nell’analizzare le due opere di George Orwell, 1984 e La fattoria degli animali, ipotizza uno scenario dell’oggi, con una razionalità e lucidità analitica disarmante.

Mi viene da pensare come mai non l’avevo tenuta precedentemente in considerazione, questa analisi di Onfray, avendo già letto la maggior parte dei suoi libri.

Forse mi era sfuggito George Orwell, letto già da molto tempo.

Ma i filosofi arrivano dove una semplice mente umana non può vedere, o arriva leggermente più tardi.

E questo nonostante abbia continuato a interessarmi con cura e approfondimento di filosofia dal tempo del liceo. Quindi da 50 anni.

Certamente conoscendo Onfray e condividendo molto del suo pensiero, la sua analisi la tenevo nello stomaco o vagava nella mente come un nomade nel deserto.

Ma ci voleva questo suo ultimo libro a farla uscire alla luce del sole, in modo così libero e sconquassante. Illuminante. Entusiasmante e chiarificatrice sulla nostra condizione di individui di questa attuale società.

Diciamo che ho preso coscienza in modo filosofico di ciò che Onfray negli ultimi tempi scrive.

Il pensiero si è interiorizzato per dirla alla Ivan Illich, altro mio filosofo di vecchio riferimento. Quindi si è fatto esistenza.

Per prendere coscienza di un pensiero, bisogna che questi dentro di noi si faccia esistenza, diventi materia di vita.

Alcuni anni fa il Corriere della sera, diretto da Paolo Mieli, pubblicò un libricino sul filosofo francese, che ben presentava la sua idea del mondo e del pensiero corrente.

Rimasi sorpreso da questa iniziativa del Corriere.

In estate incontrai Mieli, con Gianluigi Nuzzi, nel mio rifugio di Ponza davanti ad un bicchiere di vino Utopia e un accurato piatto di spaghetti con calamaretti.

Mi fu naturale chiedere a Mieli il perché di quella iniziativa del Corriere, considerando le posizioni politiche del filosofo.

Iniziammo così a disquisire sulla filosofia di Onfray con il giusto entusiasmo.

Ci dava una mano il rosso di Utopia. Socrate prima delle lezioni era solito bere vino.

Michel Onfray attualmente nei suoi ultimi libri si definisce un anarchico-socialista.

Dopo essere stato il filosofo dell’ateismo filosofico e lo è ancora, un anarchico individualista e cultore dell’edonismo, del piacere. Proprio della tradizione filosofica greca epicureista, con una fortissima visione libertaria e anticapitalista, supportata da un individualismo esistenziale.

Di Onfray ho condiviso la rivolta dionisiaca e l’esistenzialismo ateo della Scuola di Francoforte.

E tutto ciò traspare ampiamente a tratti nel mio essere poeta, come scrivono i miei critici.

Paolo Mieli con immediatezza disse, oggi Michel Onfray è uno dei più grandi filosofi viventi.

Sicuramente ne abbiamo bisogno per sorvegliare la nostra libertà di pensiero e del suo sviluppo in questi tempi moderni dell’oggi, aggiunsi.

Il pranzo tra di noi avvenne in una conviviale disquisizione sul filosofo. E Mieli si mostrò un bel professore, preparato e illuminista.

Insomma non il Mieli opinionista che appare in televisione, ma il grande uomo di cultura che stimo e ammiro.

In quelle due ore posso dire che facemmo filosofia.

Perché per fare filosofia bisogna essere minimo in due, noi eravamo addirittura in tre.

Come dicevo all’inizio, in Teoria della Dittatura, Onfray rilegge con accurata analisi i testi di Orwell e ne deduce con ragione un accostamento ai tempi che viviamo.

Con anticipo si stanno avverando le previsioni di Orwell.

Dove il mondo sta andando, anzi dove precipita? E cosa sarà di quest’uomo cosiddetto civilizzato? Si chiede il filosofo di Caen.

Onfray il filosofo denuncia, anzi io lo sento gridare: in Orwell troviamo innestato un particolare discorso filosofico che ci porta a riflettere su quanto la nostra epoca sia un’epoca anch’essa di dittatura intesa nel senso di tirannia di minoranza.

Orwell ci parla del potere, del totalitarismo, della natura umana, ma anche e soprattutto della nostra modernità: dell’ipocrisia del linguaggio, della polizia del pensiero, del ricorso al politicamente corretto, della costruzione dell’opinione pubblica attraverso i media di massa, del controllo della vita attraverso la televisione, della distruzione del linguaggio, della riscrittura della Storia, della fabbricazione dei nemici mediatici, della diffusione delle notizie false, del governo delle élite, dell’estromissione del popolo dai centri di potere, dell’invisibilità del vero governo, dell’impoverimento linguistico, dell’abolizione della verità, della eliminazione della solitudine, dell’esultanza da dimostrare in occasione di feste obbligate, della riassegnazione di edifici ecclesiastici, della distruzione dei libri, della relegazione dei poveri ai margini delle città, dell’industrializzazione della produzione artistica, dell’organizzazione delle frustrazioni sessuali, della gestione dell’opposizione, dello sfruttamento del progresso a scopo di dominazione, delle mire imperialistiche, dell’insegnamento di una lingua unica, dell’abbassamento del livello d’istruzione generale, della riduzione di ogni pensiero critico a pensiero psichiatrico, dell’indottrinamento dei bambini, della negazione delle leggi della natura, della creazione di una realtà fittizia, della soppressione della bellezza, dell’invisibilità del potere, dell’eliminazione dell’ultimo uomo.

Mi sembra che tutto ciò si stia avverando e in parte si sia avverato.

Già si vive in questa organizzazione della società.

Quando tempo all’uomo rimane? La nostra non è più una società libera.

L’Europa è ora l’impero orwelliano.

L’impero di Maastricht come scrive Onfray. A mio avviso con grandi ragioni.

Un nuovo tipo di totalitarismo si sostituisce ai vecchi totalitarismi. Dittature che forse non si sono mai estinte.

Come si sta attuando questo nuovo totalitarismo? Con la distruzione delle libertà personali, l’impoverimento della lingua e della cultura, con l’abolizione dei classici, l’emarginazione della filosofia e della poesia, cancellando le parole e il passato, diffondendo notizie non veritiere, strumentalizzando la stampa, creando realtà fittizie, l’abolizione di ogni verità, la soppressione della storia, cancellando il passato e inventando la memoria, la negazione della natura, l’indottrinamento diffuso, l’uniformare il pensiero, la riduzione in schiavitù attraverso il progresso e la manipolazione di ogni forma di informazione.

Basti pensare che in Italia si va a votare secondo la Costituzione e dopo qualche mese il Presidente della Repubblica nomina un capo di governo non eletto dal popolo né presente in Parlamento.

E tutti i partiti e gli schieramenti politici si piegano e asservano al nuovo padrone.

Finiscono le idee, i distinguo, e le diversità.

Si abolisce ogni opposizione, ogni pensiero critico.

La stampa fa da segreteria al potere.

I sindacati si nascondono.

Ogni forma di controllo della democrazia si affievolisce e si piega al Comandante migliore di turno dell’Impero nascente.

O forse questo Impero è già nato e non ce ne siamo accorti del tutto, e ne siamo poco consapevoli.

Ci siamo arrivati a questa tirannia, denuncia il filosofo Michel Onfray. Non è il solo a prendere coscienza di ciò, e non deve essere il solo. Non può essere il solo.

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Non è questo il mio nome, i nuovi versi del ponzese De Luca

Riceviamo e con piacere pubblichiamo i nuovi versi scritti dal poeta ponzese Antonio De Luca, che ancora una volta esprime il disagio dell’uomo di cultura davanti alla deriva della società odierna e l’unica consolazione data dalla letteratura.

Nell’ultima poesia di De Luca traspare inoltre, come sempre, il forte attaccamento alla terra e alla sua isola, Ponza, alla casa isolana da sempre suo rifugio e a quel Mediterraneo che la circonda.

Non è questo il mio nome

che ci faccio qui
ad essere sorvegliato
in questo mondo conosciuto
in questa ragion d’essere

chi mi chiama

non è questo il mio nome

non sono io
io divenni un altro
e un altro ancora

A questi giorni
ho ridato gli Dei

a questo spazio reale
i tanti di me

mi prendo
il tempo e la materia
l’idea è la vita stessa

la casa dell’infanzia
mai la lasciai

sto su questa terra
a ipotizzare
con chi e per chi
se poi tutto svanisce
e Nulla è

la mia attività unica
è sognare
sperare e illudermi

un’isola come ossessione

tra Demoni e Amore
scrivere poesie

quanto basta per vivere
nella solitudine

il volontario esilio

tra città letterarie
a testimoniare di esistere

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De Luca e la storia del Winspeare Monk Jazz Club

Dopo duecentocinquanta anni l’ingegnere Antonio Winspeare ritorna a Ponza.

L’aveva lasciata alla fine del 1700.

Aveva progettato e fatto costruire il porto, la chiesa, la passeggiata, le opere pubbliche.

Il suo porto, un esempio urbanistico di razionalità e bellezza creativa.

Tutto del Winspeare è ispirato all’arte classica romana.

Ispirato alla Pompei che veniva fuori dalle ceneri del Vesuvio. All’Atene di Adriano.
Ma cosa trova adesso Antonio Winspeare, cosa è rimasto della sua ragione, del suo pensiero, delle sue opere. Trova, dopo appena due secoli. uno scempio totale. Cenere.

Completamente distrutto negli anni il suo vecchio progetto. Ne rimane la forma esedra del porto. La magia di un Mediterraneo. Il pensiero winsperiano nelle strutture portanti del centro storico.

Il convegno sulla figura dell’ingegnere Antonio Winspeare e la sua importanza storica è giustamente organizzato dalle varie associazioni culturali e politiche presenti nell’isola. Un atto dovuto alla cultura mediterranea del Mezzogiorno, alla sua storia. Un sentito grazie all’organizzazione e ai professori presenti. E soprattutto agli eredi Francesco ed Eduardo.

Tutti nella sua chiesa, a parlare di Lui e della sua ragione urbanistica con studiosi e storici.
Una chiesa che pensò a forma di un piccolo pantheon. E che l’uomo barbaro e brutale del primo novecento, ha rovinato con varie aggiunte, fuori da ogni logica e sentimento religioso. Oggi una cosa simile sarebbe improponibile.

Purtroppo la chiesa oggi è in uno stato di assoluto degrado che mette a repentaglio la sua stessa struttura. La chiesa del Winspeare è decisamente in pericolo.
Urge l’intervento dello Stato. Ed anche per questi motivi l’evento di questi giorni acquista a mio parere una grande importanza culturale.

Fa sempre bene all’uomo parlare e riflettere sulla storia. Denunciare le assenze delle virtù e della giustizia. Osannare la gloria. Soprattutto quando ci sono le persone giuste a dettare conoscenze e pensieri. Studio e meraviglia.

Da quando venni a conoscenza dell’Urbanistica di Antonio Winspeare, e del suo pensiero, negli anni 70, me ne innamorai. Fui conquistato dalle sue ragioni. Dalle forme di quella urbanistica destinata all’uomo.

Non azzardo a dire che Winspeare e Le Corbusier hanno una qualche comune radice. Antonio Winspeare fu anche un traduttore di Anacreonte, e scrisse un libro sulla eruzione del Vesuvio del 1794. E questo mi affascinava.

Purtroppo ho notato che durante l’evento nella chiesa da lui progettata, molte persone dormivano e molte stavano a chattare o a guardare il vuoto in attesa di chissà cosa. Forse a far passare il tempo. Anche l’acustica aveva difficoltà a raggiungere tutto il pubblico. Ma ogni discorso sull’ingegnere scorreva bene a illustrare la sua arte, il pensiero, la sua storia.

Illuminante l’intervento di Edoardo Winspeare. Questa la dice lunga sul pubblico presente in certe manifestazioni culturali. Non sempre il pubblico rappresenta l’importanza dell’evento a cui assiste.

La manifestazione mi ha dato modo di incontrare gli eredi dell’ ingegnere Antonio Winspeare. Sono stato felice ed entusiasta di trascorrere con loro le poche ore.
Ci siamo ripromessi di incontrarci presto. Considerando i molti interessi che ci accomunano, e l’amore per la nostra terra.

Nel 1985 a Ponza fondai il Winspeare Monk Jazz Club. Un locale alle banchine winsperiane facente parte dell’urbanistica del porto. Eredità della famiglia materna.

Innamorato dell’architettura di Antonio Winspeare, e soprattutto di quel piccolo pantheon, che era la chiesa circolare con la cupola a scaglie di argilla rosse. Decisi così di intitolare all’ingegnere il locale ad archi concentrici che avevo restaurato. Rispettando le linee guide del suo pensiero. Per me quella chiesa che apre il camminamento sul porto, rimaneva e rimane un pantheon.

Gli archi sulla passeggiata del porto, ora scomparsi, portavano il pensiero alla urbanistica di Pompei ed Ercolano, all’architettura della villa di Adriano a Tivoli, alla biblioteca di Adriano ad Atene. Tutti argomenti che mi appartengono.

Poi Monk Thelonious rimane il mio musicista jazz geniale. E non potevo non dare il suo nome ad un locale che del Jazz avrebbe fatto il marchio distintivo. L’opera prima.

Nel locale avevo fatto fatto restaurare persino una nicchia dai colori pompeiani, sempre di età borbonica. Dentro ci misi cinque lettere in ottone. MOZART era scritto. E sempre una rosa rossa era lì a ricordare il più grande della musica.

Il Winspeare Monk Jazz Club fu un locale che accoglieva viaggiatori, artisti, musicisti e vagabondi da ogni parte del mondo. Si poteva incontrare gente di ogni razza. L’avventura ci abitava.

Velisti che passavano dal loro giro intorno al mondo. Si fermavano a raccontare le loro storie. Artisti potevano esporre le loro opere. Poeti declamare le loro poesie. Si presentavano libri. Libri di poesie erano a disposizione di chi era interessato.

Un pianoforte fuori orario aspettava qualcuno che lo facesse suonare tra il rumore delle onde del mare. Come ebbe a dire il critico musicale Ira Gitler sul New York Times. Il Winspeare Monk Jazz Club accolse grandi musicisti provenienti da esperienze nazionali e internazionali.

Dopo Umbria Jazz molti venivano a suonare al Winspeare Monk Jazz Club. Si accontentavano di piccoli budget.

Il quotidiano Repubblica seguiva il cartellone con recensioni quotidiane. Ares Tavolazzi contrabbassista, fondatore degli Area insieme a Demetrio Stratos, e musicista di Paolo Conte, di Vinicio Capossela, Mina, Francesco Guccini, fu una assidua presenza.

Fabrizio Sferra fu batterista in Italia di Chet Baker. Collabora con Enrico Pieranunzi, Maurizio Giammarco, Lee Konitz. Toots Thielemans, Paul Bley. Fabrizio ha suonato in festival jazz di tutto il mondo, nel 2001 con Danilo Rea e Pietropaoli bassista rappresenta il jazz italiano nella storica Town Hall di New York.

Fabio Zeppetella chitarrista e fondatore degli Area 2. Ha collaborato e collabora con Alfonso Gatto, Lee Konitz, Steve Grossman, Enrico Rava. Un maestro della chitarra. Vanta festival Jazz in tutto il mondo da Osaka ad Abu Dhabi. Con Zeppetella e Sferra ci siamo frequentati anche dopo. Negli anni che vissi a Roma.

Dario Deidda è uno dei più grandi bassisti del mondo. Con lui ebbi un rapporto speciale. Taciturno ma simpatico e di grande spessore. Un intellettuale. Venne a Ponza dopo aver suonato con Michel Petrucciani. Vantava un alto curriculum. Suonava con Marcus Miller, Pino Daniele, Ivano Fossati, Tom Harrell, Vinnie Colaiuta. Ricordo che al mare si nascondeva tra gli scogli. Il sole forte gli dava fastidio. Dario aveva un carattere allegro. Metteva buon umore. Piacque subito ad Ira Gitler.

Ramberto Ciammarughi suonava il piano. Un nobile, grande classe. Grande eleganza. Ciammarughi si interessa anche di musica contemporanea.

Ha girato il mondo collaborando con musicisti e cantanti del calibro di Dee Dee Bridgewater, Steve Grossman. John Clark e altri in festival jazz ovunque. A Monaco fece un concerto da solo. Ciammarughi suona in tutto il mondo, dal Giappone al Sud America. È compositore e arrangiatore.

Con questi la notte ci fermavano a chiacchierare a raccontarci storie. Io cucinavo e insieme facevamo l’alba. Bevevamo il mio vino. Loro avevano tanto da raccontare.

Ares Tavolazzi ci raccontò i suoi anni per le strade a New Orleans. Il primo concerto con Paolo Conte. Mi regalò cassette inedite di registrazioni degli Area dove la voce di Demetrio Stratos mi faceva venire i brividi.

Fabrizio Sferra raccontava i giorni vissuti con Chet Baker nel suo ultimo concerto. Tanti altri passarono per il Winspeare Monk Jazz Club. Gli anni son passati e molto ho dimenticato.

In quelle estati degli anni 80, alla solita ora arrivava Lucio Dalla e si fermava fino a tarda sera. Spesso notavo che scriveva qualcosa su pezzi di carta. A volte scambiava frasi con i musicisti e si soffermava a parlare. Qualcuno lo riconosceva e chiedeva un applauso per il maestro. Lucio si alzava e con un accenno di garbato inchino ringraziava.

A notte fonda arrivarono Raul Gardini e la moglie. Stavano ad aspettare l’alba con il sottofondo degli striduli di Miles Davis, la voce di Billie Holiday e Sarah Vaughan.

Gigi Proietti spesso si esibì in Jam session con I suoi amici musicisti.

Il musicista e compositore canadese Howard Jones, Oscar per vari film, collaboratore di Martin Scorsese, venne a sposarsi qui. Io gli feci da testimone tra le note di Ornette Coleman. Venne a trovarmi qualche anno dopo.

Nel mio rifugio a Punta Fieno Howard mi raccontava di Ornette Coleman e Thelonious Monk che aveva conosciuto a New York.

Ira Gitler nelle sere al Winspeare mi parlava di Miles Davis, Chet Baker e Charlie Parker che aveva conosciuto personalmente.

Ira Gitler è uno dei più grandi critici musicali. Le sue recensioni erano dietro i dischi a 33 giri di Miles Davis. Venne a Ponza, gli avevano parlato a Siena Jazz di questo piccolo locale sul porto dove si ascoltava un ottimo jazz. Facemmo grandi e lunghe disquisizioni sul bebop. Il bebop era la musica di Kerouac e della beat generation. Di Jackson Pollock. Dei sognatori americani di allora. Anche il mio. Che scrivevo versi per le strade del Mediterraneo.

Il pittore Mario Tarchetti, uno dei fondatori a Napoli del Gruppo Sud, era un frequentatore del Winspeare Monk Jazz Club. Diceva a tutti che le linee urbanistiche del Winspeare, gli ricordavano il luogo dove si ritrovavano a Napoli quegli intellettuali e artisti che tanto diedero alla cultura italiana. Basta ricordare Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Anna Maria Ortese, Titina De Filippo, e pittori come Renato de Fusco, Guido Tatafiore, Federico Starnone, Renato Barisani e tanti altri che rivoluzionarono la pittura napoletana. Pietro Tarchetti fu uno di questi.

Lo scenografo ponzese di Bernardo Bertolucci, di Giuseppe Patroni Griffi, di Costa Gavras, Gianni Silvestri ci portava a vedere i bozzetti per l’Ultimo imperatore. Ci raccontava le imprese per girare Il the nel deserto. Una sera ci presentò Debra Winger. Ci raccontarono della scena finale nel deserto marocchino della morte di John Malkovich e dell’entusiasmo di Bertolucci.

Molti pittori di strada provenienti dal sud America e dall’Asia feci esporre tra le pareti winsperiane. Molti giornalisti e scrittori frequentavano il Winspeare Monk Jazz Club. Politici del socialismo napoletano e non solo frequentavano il Winspeare.

Era evidente la mia cultura socialista. Attraeva politici e critici. Il locale nel tempo si fece fucina di un nuovo pensiero politico e culturale ponzese. Naufragò il tutto con il colpo di Stato della Magistratura. La cosiddetta mani pulite. La fine dei partiti e delle idee.
Ma soprattutto il mio bisogno di allontanarmi dall’isola che sempre più mi era stretta. E poi l’isola aveva iniziato a precipitare in un nuovo turismo che non prometteva niente di buono.

La mia partenza per i porti del Mediterraneo fu inevitabile. Lisbona, Marsiglia. Istanbul, Beirut, Tangeri, Barcellona, Buenos Aires mi accolsero. Mi invitarono a vivere ogni oltre. Un cosmopolitismo innato. Queste città mi diedero conoscenza, poesia, amore e cultura.

Il critico e scrittore Vieri Razzini trascorse le sere al Winspeare Monk Jazz Club. Poi mi mandò qualche anno dopo a Lisbona. Wim Wenders girava Lisbon Story. L’aveva intervistato qualche giorno prima per Rai3. Con lui trascorrevo le notti a parlare di cinema.
Di Vender, Fassbinder, Herzog. Del cinema francese. François Truffaut, Godard, Chabrol, Rohmer.

Per circa cinque anni questo locale, che portava il nome di un allora semisconosciuto ingegnere inglese, chiamato alla corte del Re illuminato nella Napoli del 1700. E vissuto alla scuole del Vanvitelli e del Carpi. Portò aspetti di vita di artisti e musicisti dal Mediterraneo di Ponza nel mondo.

Il Winspeare Monk Jazz Club ha fatto incontrare gente da tutti i continenti.

Per l’evento dei 250 anni di Antonio Winspeare ho rincontrato con molta felicità gli eredi Francesco ed Edoardo, a cui sono legato da sincera stima. Nel loro Salento dove hanno scelto di vivere, moltissimo fanno per la cultura.

Presto insieme proporremo nel Salento ellenistico la mia poesia mediterranea e quel Jazz che ci accompagna nei difficili sentieri dell’anima. E che ci dà la tristezza e l’orgoglio di vivere. Serve anche quel nobile sentimento di tristezza per conoscere la gioia.

A Ponza, in Italia e nel mondo, Antonio Winspeare ingegnere alla corte del Regno delle due Sicilie continua a vivere e far sentire la sua voce. Oggi ne abbiamo bisogno più che mai.
Ogni bruttezza ci sta uccidendo. La bellezza può salvarci.

Oggi il Winspeare Monk Club Jazz continua a fare la sua arte in un mondo che cambia.
E non sempre è un mondo migliore in un’isola migliore.

Ma abbiamo sempre bisogno della bellezza dell’arte, della musica e dei luoghi sani. Dove il pensiero ha la possibilità di confrontarsi e crescere in libertà e giustizia.

Quel locale di origine borbonica, nato dalla ragione dell’ ingegnere illuminato, esiste ancora.
E per sempre sarà un’Agorà in mezzo alle onde, tra barche e salsedine, ad accogliere artisti e pensatori. Con musica, whisky torbati, rhum e pesce crudo.

Il Winspeare Monk Jazz Club esiste nel Mediterraneo che l’ha partorito. Esiste tra le onde, in cui le note di Ornette Coleman lo esaltano tutt’ora alla gloria del jazz e della poesia.

Oggi ci sono le nuove generazioni, Simone Cristicchi, Federico Zampaglione, Niccolò Fabi, Pier Cortese, Alessandro D’Orazio, Antonello Aprea. Vauro ci trascorre le sere. Questi bravi artisti sono il nuovo respiro del Winspeare Monk Jazz Club.

Il Winspeare ora artisticamente non mi appartiene più. Lo vivo di ricordi, di quegli anni. Mi appartengono indelebili. Me li conservo addosso.

Al Winspeare Monk Jazz Club Utopia è ancora una speranza. La mia fede anarchica per un uomo migliore è ancora lì. È viva e si fa sentire.

La tromba di Miles Davis e il sax di Charlie Parker, la musica di Joe Zawinul, il Take Five di Paul Desmond e Dave Brubeck, le mani ancestrali al piano di Thelonious Monk, la voce di Nina Simone continueranno a vivere all’aria salmastra del porto di Antonio Winspeare. Solo per l’arte. Solo per l’uomo. Il suo cuore la sua anima.

L’amore per la vita. Il suo esistere.

Il jazz appartiene alla letteratura.

È primordiale. Come la poesia.

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Stirpe Mediterranea, l’essenza di Ponza nei versi di De Luca

L’isola, il mare, la salsedine, la terra dura e bruciata dal sole, come la gente che popola gli arcipelaghi disseminati come perle lungo il Mediterraneo.

Antonio De Luca, poeta ponzese, riesce quasi a far sentire sulla pelle l’aria e la magia di Ponza.

Fa respirare a pieni polmoni quella cultura così affascinante che permea le isole e le coste del mare nostrum.

Millenni di storia condensati in pochi versi, appena scritti, quelli che riceviamo e con piacere pubblichiamo:

Stirpe Mediterranea

sono Isole native di Dei

dove il sole è cocente
e gli alberi
danno resina selvatica

la vite
corre lungo il mare
sopra una rupe
di terra pietrosa

la casa delle stagioni

con giardini di fico
ulivi e il forte gelso

il legno della prua
di Leucotea
che taglia le onde

martoriato di amore
sta il figlio
del vecchio Laerte

l’abbraccio salmastro
il tempo che resta
la felicità sola
l’insubordinazione

la strada la strada
verso la casa del padre

mentre le Muse cantano a turno con splendida voce1

Da Omero, Odissea

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Vendemmia 2021

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“IL FIENO, UNA STORIA SEGRETA DI PONZA” IL LIBRO DI GIULIANO MASSARI E ANTONIO DE LUCA

UNA STORIA SEGRETA DI PONZA: IL FIENO

Il Fieno: una storia segreta di Ponza” è il libro di Giuliano Massari e Antonio De Luca che verrà pubblicato con cadenza giornaliera su Mam-e.it

GIULIANO MASSARI, ANTONIO DE LUCA E IL LIBRO: “IL FIENO, UNA STORIA DI PONZA”

Giuliano Massari, noto architetto romano, e Antonio De Luca, poeta e scrittore sono la memoria di una vita ponzese che non tornerà. Le storie dei contadini, della coltivazione dell’uva, della vita dura dei campi dell’isola di Ponza: ne “Il Fieno: una storia segreta di Ponza” troviamo tutta l’epopea della cultura ponzese. Gli autori si mescolano alle storiche famiglie ponzesi contadine e ne condividono le esperienze raccontandole con una penna ironica e appassionata alle vicende. C’è rispetto nella narrazione e la descrizione di uno spaccato di vita che col passare del tempo è andato perso. Le avventure, la vita agra e piena di sacrifici ma anche divertente ed ironica di cui parla il libro riguarda una Ponza diversa da quella che possiamo visitare oggi. Ciò fa del libro di Massari e De Luca un unicum di storia, racconto e umorismo che si dipana con un file rouge fatto di svariati bicchieri di vino bianco e rosso che Giuliano e i suoi amici ponzesi hanno bevuto per anni e anni.

da Mam-e.it

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