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Adespota, o il filo del Mito

Il filo è spezzato. E non da ora, sono millenni che lo è. Lo aveva già spezzato Odisseo, citato pur sempre come pretesa figura mitica a cui ritornare. Giovanni Pascoli, di cui ricorre quest’anno il centenario della morte, l’aveva senza mezzi termini dichiarato nei Poemi conviviali, e sotto il suo verdetto non può non ricadere anche Adespota, nella misura in cui anche quest’opera si configura di fatto come un tentativo di riconnettersi al mito, di raggiungere con gli strumenti straordinari della ispirazione poetica la spontaneità e la luce dei primordi. Questa tensione verso l’arcaico, verso tutto ciò che si pone al di qua del logos, mi ricorda, per la sua disperante inanità, alcuni versi che voglio citare: quelli di Leopardi, della poesia A Silvia: Tu misera cadesti e con la mano / La fredda morte ed una tomba ignuda / Mostravi di lontano; e quelli simili di Pascoli stesso, del X Agosto: Ora là nella casa romita, lo aspettano aspettano invano / egli immobile attonito addita / le bambole al cielo lontano. In questi versi infatti il gesto di tendere verso qualcosa si annulla impotente nell’attimo stesso in cui si realizza in quanto è effettuato dai morti, così come dai morti è effettuato il tentativo di recuperare la irrecuperabile vita del mito. In riferimento a ciò la prima poesia del libro (I burattini) è illuminante: i burattini sono gli uomini morti, spiritualmente morti, ancorché biologicamente vivi, e ad essi è assolutamente preclusa ogni fuga nel Nuovo ed ogni ritorno nel Vecchio, la Restaurazione come la Rivoluzione: un paese fantasma, qui i morti / sanno uccidere i morti e i vivi / se stessi rincorrono morti. Ma l’io poetico dei nostri due autori non può sfuggire a ciò che pure condanna (poiché non basta sapersi burattini per smettere di esserlo) e quindi – proprio come l’Odisseo pascoliano nell’Ultimo viaggio – non riuscirà a cogliere in Adespota nulla dell’Ellade primordiale, ma solo il proprio assurdo tentativo di raggiungerla, e ciò nonostante tutto il suo amore per Omero e i Lirici greci che traspare da ogni verso. Con questo, naturalmente, non voglio negare il valore poetico di Adespota, ma solo evidenziarne l’inevitabile hybris, o meglio l’aporeticità che consiste nel voler far rivivere il Mito con i mezzi che gli procurarono la morte: l’Io autonomo e la ratio.
Che il Mito sia irrevocabile, e destinato ad una vita umbratile e vana come un relitto della terra o della mente, appare del resto chiaramente nella poesia ‘Elaken pònon émata pànta in cui la prima strofa è tratta da Mimnermo. Per quest’ultimo il Sole, l’Aurora, l’Oceano sono entità viventi – sostanziali avrebbe detto Hegel – cioè vivificate dalla fede assoluta degli uomini: entità maestose, gloriose, ma nello stesso tempo vicinissime ai mortali, anzi, ad essi consustanziali. Tutt’altra la condizione attuale (2600 anni dopo), condizione che la poesia mette icasticamente in rilievo dipingendo un sole cupo e lugubre, delirio interminabile di vetri verticali e incubo di luce che fa addirittura rimpiangere i sogni colorati della notte.
Eppure il Mito ancora ci chiama e ci affascina, e non può non farlo. Perché anche noi siamo il Mito, esso è una parte di noi. Il Mito è il mare, il Mediterraneo innanzitutto, ma poi anche qualsiasi altro mare. Come Adespota ci mostra ad ogni verso, ciò che fa del mare la figura principale del Mito è la sua fluidità, la sua fuggevolezza, la sua incessante mutabilità, la sua inafferrabilità. La terra, con i suoi contorni fissi, con la sua costanza di forma si presta ad essere afferrata dal concetto e dal giudizio, dal logos umano; non così l’elemento liquido, in cui il principio di identità, cellula fondamentale della ratio, non ha diritto di cittadinanza. L’onda ora è ora non è, e il pensiero dell’Uno, dell’Essere, va inevitabilmente in protesto. Questo rende il mare il luogo mentale in cui si raccoglie e resiste tutto ciò che la ratio, nel suo inarrestabile progresso, ha scacciato dal mondo civile: la natura interna ed esterna agli uomini. A tale natura ognuno vorrebbe ritornare, ognuno ne ode dentro di sé l’irresistibile richiamo, ma ognuno è bloccato (come Odisseo davanti alle Sirene) dalle funi del proprio Io, della paura della rovina e della morte. Per questo il desiderio del nostos, la nostalgia, si connota nei tempi moderni e ancor più oggi, e in questi stessi versi, di uno struggimento disperato e sinistro, quando non lugubre, simile in tutto all’attrazione vertiginosa per un orrido abisso. In questi tempi, in cui anche per i più accorti e razionali la rovina è dietro l’angolo, come declassamento, perdita del lavoro, povertà e suicidio, abbandonarsi alla natura, al mare libero e senza legge, a quel disordine che è l’ordine degli dei, è il più grande dei tabù, il divieto dei divieti. Così, alla fine, ci si ritrova tutti, ancor sempre, come è detto mirabilmente nella poesia “Un giorno dopo l’altro” : alle sette del mattino // al chiuso nei sudici / metallici vagoni / tiepide carni sfatte / fermentano al calduccio // sferraglia sugli scambi, scuote / una folla di visi stanchi // alle otto del mattino / cappelli cappotti, guanti, sciarpe / occhi rossi, bocca amara / bene ordinato passo e morte.
Chiudo queste rapide impressioni su Adespota con alcune notazioni di carattere formale. La cosa che colpisce è il nesso profondo tra il verseggiare dei nostri autori e quello dei lirici greci e Omero. E’ come se la sostanza ritmico melodica dei poeti antichi venisse in qualche modo conservata, ma non come nell’ellenismo, o anche nel nostro Ottocento, per via di imitazione, nel segno di una impossibile e coatta continuità; bensì attraverso una radicale rottura, che fa tesoro delle esperienze delle avanguardie poetiche del Novecento. Mi riferisco alla scansione dei versi, che rifiutando ogni sia pur apparente consequenzialità logico – sintattica, compone per singole epigrafi, rapsodicamente, come se l’anima procedesse per un antica necropoli, e dalle lapidi spezzate traesse qua un verso intero, là un frammento, là ancora una singola parola, e poi riunisse il tutto a formare un’intera poesia, seguendo una legge oscura a cui volentieri e consapevolmente si abbandona. Ciò porta, specie in alcuni componimenti (come Pausilypon, Oro nei vetri, Perchance to dream, Dana) a risultati di notevole valore poetico, in cui, miracolosamente, l’antico rivive nel moderno e questo nell’antico, generando nel lettore un vivente e stupefacente recupero dello spirito poetico arcaico.
Non mancano ovviamente altri modelli, altri stili, più normali e alessandrini, per così dire, che danno anch’essi il loro fruttuoso risultato: come ad esempio quelli presenti nella poesie “La morte per acqua” (una delle più incisive e suggestive della raccolta) o “Nulla domus tales…” o “’Akei ek petàlon…”, e le molte altre aventi come occasione personaggi omerici. Ma tali poesie, pur pregevoli, costituiscono, a mio parere, solo la corona che rende più belle quelle di stile più fratto, di cui ho appena parlato.
Rocco Familiari

 

La poesia dell’errante

Ponza ben si confà alla presentazione delle poesie di Adespota. Perché è luogo che vide l’errante Ulisse sulle sue sponde.

Ponza non è un concetto poetico, non è l’isola – categoria astratta – in cui i poeti si rifugiano, proiettandovi gli ansimi e le ansie, per trovare serenità. No, Ponza è  realtà viva che stride al vento e si addormenta con le nenie. E’ casa, è madre, anima, dolore. E’ luogo di incontro: come è nella dimensione propria dell’isola. Qui si incontrano I due poeti, e parlottano coi loro versi, inebriati dagli afrori che l’isola  nella memoria classica ha prodotto, dalle malìe che I versi nella letteratura hanno irretito altri poeti, erranti  anch’essi.

L’Ulisse del professore Simi trae dall’errare per i tragitti mediterranei la sicurezza d’ essere uomo gradito agli dei e dunque segnato da un destino, contorto e doloroso, ma già trascritto nella tela della sorte. Antonio  scrive ogni giorno il suo destino. A naso, seguendo i profumi del Mediterraneo. Orecchiando il frangersi dell’onda. Tenendo dietro al profilo del sole all’orizzonte.

In Adespota c’è poesia dell’uomo che sa d’essere un eroe, e quella di un uomo la cui eroicità è la vita.

Francesco De Luca

 

 La Poesia del mare

Nei confronti della poesia, ho avuto sempre un grande rispetto.

In una poesia, le parole devono essere ben pensate, con i suoni giusti e le giuste cadenze e anche se senza rime e costruzioni varie, devono, comunque, avere un loro ritmo e occorre far cadere l’accento giusto al momento giusto e rispettare una pausa  e la ripresa e dare il tono giusto della voce. Perché spesso una poesia è senza segni d’interpunzione e solo chi la sente la può leggere o recitare nel modo giusto.

La poesia, è stata per me, l’inizio di questa passione per la scrittura. Mi ricordo che già dall’adolescenza, negli spazi bianchi di alcune pagine dei miei libri, spesso durante alcune lezioni (probabilmente noiose), traducevo in versi le immagini che vedevo dalle finestre dell’aula e quelle che mi portavo nella mente.

C’erano le foglie ballerine dell’autunno, c’era l’odore del pane appena cotto e la fioritura dei ciliegi a primavera e poi, tante poesie sul mare e i suoi colori, calmo o agitato, all’alba e al tramonto, in ogni stagione e con tutte le emozioni e le  sensazioni che mi dava guardarlo, parlargli o anche soltanto pensarlo.

Nell’età degli studi, il mare lo si intende come evasione, divertimento e vacanza. Difficilmente si pensa ad esso come una metafora della vita, dell’amore, delle paure, dei grandi spazi, del bisogno di un porto, di una grande strada che porta a un’isola dorata…

“Tutte le strade finiscono al mare, dove ci sono i porti. Di là ci s’imbarca e si va nelle isole dove gli stradoni riprendono…” (Pavese)

Poi si cresce… Ci innamoriamo, soffriamo e camminiamo a un metro da terra. Il mare diventa l’estate con i disegni sulla battigia e i castelli con le stradine dove i tuoi bimbi spingono le biglie e scavano per trovare l’acqua da far passare sotto i ponti.  Noi  grandi che sonnecchiamo sotto l’ombrellone con un occhio chiuso al sole e l’altro aperto verso i figli che, instancabili, rincorrono le onde per riempire i secchielli di acqua e costruire altre torri, perché quelle di prima sono state distrutte da un’onda più lunga delle altre.

I figli crescono, le mamme imbiancano… dice una canzone. Ma i figli crescono e i grandi cominciano a stancarsi. Si guarda lontano, quando si va al mare. Oltre l’orizzonte. Interminabili sguardi nell’attesa di risposte, nella speranza che arrivi qualcosa che ci scuota, nelle domande circa il senso della vita e del tempo per se stessi che non basta più, e del tempo che passa e che fa diventare altro tutto ciò che viene. Un orizzonte irraggiungibile e che mai ci apparterrà…

“È stata ritrovata! Cosa? L’eternità. È il mare unito al sole” (Rimbaud)

Poi i figli se ne vanno, come è giusto che sia e spesso si rimane soli. Le fatiche della vita sfiancano e a volte, isolarsi da tutti o cercare un luogo dove poter trovare sollievo, diventa necessario. C’è chi pensa alla montagna e chi, come me, continua a credere che il mare sia il posto giusto per riconnettersi con se stessi.

Spesso, di mattina presto, durante l’estate, quando vado nella mia casa al mare, mi piace passeggiare sulla battigia. C’è solo qualcuno che fajogging e qualche persona anziana che raccoglie le conchiglie. Mi piace arrivare in un dato punto dove c’è un sasso che sporge e che ha la forma di una poltroncina.

Mi siedo e osservo il mare e scrivo e penso. A volte  dirigo alcuni pensieri su quelle acque erranti e a volte il mare mi suggerisce le parole giuste. Sembra siano le onde stesse a parlare sospinte dalla brezza e nel loro movimento scorgo i gesti di un amico.

Sì, perché il mare a volte sembra compiere azioni umane…

“…si pettina, si struscia contro se stesso il mare pizzicato dall’aria, mordicchiato dal vento nella verde-azzurra pelle…” (Mario Luzi)

…E quanti modi di dire riguardanti la voce del mare! Un mare di parole, le parole sul mare, le parole che assomigliano al mare, le parole in mezzo al mare che possono evocare ricordi veri o fantastici. Le parole dentro il mare. Perché qualcuno si è domandato se i pesci parlano e  “…tutto, invece, può essere riconsiderato…” perché, forse, anche i pesci hanno un loro modo di parlare.

Il mare è terapia dell’anima. Entra dentro i pensieri e li innalza rendendoli potenti e sovrani.

Di poesie sul mare ce ne sono innumerevoli così come i racconti che sono poesia pur essi, perché quando si parla del mare, immediatamente si cambia espressione e ci si pone in un ascolto che sa di preghiera.

“…i confini del mare somigliano al cerchio di gesso che continua ad essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano o restringono. Lungo le coste di questo mare, passava la via della seta, s’incrociavano le vie del sale e degli olii e dei profumi, dell’ambra e degli ornamenti, della sapienza  e della conoscenza e dell’arte…” (Predrag Matvejevic, in Breviario mediterraneo).

Ma molti Autori ne hanno parlato e troppo sarebbe ancora da dire. Voglio soffermarmi su un poeta appena conosciuto: Antonio De Luca.

Ho avuto modo di conoscere qualche suo pezzo sul sito, e curiosa di saperne di più, sono stata anche alla presentazione del libro qui a Roma.

Andrea Simi, Isabel Russinova e Antonio De Luca alla presentazione di “Adespota” a Roma, il 29 maggio u.s.

Nell’entrare in quella meravigliosa biblioteca e nel vedere tanta gente austera in giacca e cravatta, ho pensato inizialmente di aver sbagliato luogo. L’idea che mi ero fatta di Antonio, leggendo una sua poesia, era diversa da ciò che vedevo in quel momento.

All’ingresso della grande sala, le cui sedie scricchiolavano al minimo movimento, seduto su tre gradini laterali, c’era un uomo giovanile nell’aspetto ma vestito in modo diverso dagli altri : jeans e giacca jeans, scarpe da ginnastica, una sciarpa al collo che, dai colori,  avevo scambiato per una sciarpa della Roma…

Aveva una prospettiva ampia della sala da quella parte e osservava curioso e pensieroso, tutta la sala e tutte quelle persone. Così lo avevo immaginato e mi ha fatto piacere quando ho avuto l’opportunità di appurarlo.

“Grazie delle sue parole e dei suoi pensieri” – così mi ha dedicato il suo libro.

Ho provato a fare un’analisi della sua grafia e della personalità che c’è dietro (seppure la grafologia non sia una scienza esatta): è una personalità complessa e inquieta seppure intrisa di forte passionalità e attaccamento alle cose che conosce e che ama. Ma più che la grafia, ho ritrovato nella sua poetica, ogni cosa di cui sopra e che è appartenuto anche ai sommi.

La sua “anima barocca”“il porto di se stesso”, l’oceano che diventa passaggio ma anche “i libri ormeggiati come navi…”, il “pensiero rivolto all’orizzonte, nel mare d’inverno nascosto nelle barche scolpite dal vecchio, nella lotta “di tutte le attese davanti al mare”, nell’ ascolto di un’isola e nel suo altrove, negli “amori segreti che si condividono con un luogo”.

Tante sono le cose che mi hanno fatto pensare a tanti poeti in un poeta.

I suoi amici, sul sito, ne hanno parlato con affetto e sorpresa. È bello riscoprire un amico nell’animo e ritrovarlo nei ritmi alterni della propria vita.

Ma il suo vivere su un’isola citandone il fico, la vite e l’ulivo, prodotti cari anche a vati eccellenti… sospeso tra cielo e terra nutrendosi di frutti di mare e di vino e di lettere d’amore… credo sia una immagine così serena, espressione di quella malinconia positiva e creativa dentro un’apparente solitudine, che mi ha  fatto stare in sua compagnia, leggendone le poesie.

La poesia sa consolare, a volte, e la si comprende anche da una sola parola o solo nella sua musicalità, in qualsiasi lingua venga recitata.

A tal proposito mi sovviene la scena del film “Il postino” di Massimo Troisi.

Il poeta, Pablo Neruda, parla con il suo amico di fronte al mare e recita una poesia nella sua lingua, lo spagnolo.

L’amico napoletano non coglie le parole ma ne avverte il ritmo e dice al poeta:

“Mentre parlavate, le parole entravano dentro di me e andavano di qua e di là come il mare”.

Sì il mare… metafora dell’amore.

Gabriella Nardacci

Il mio “Adespota”

“Mi raccomando sei stato invitato ufficialmente, non fare come al solito che non vieni ci tengo alla tua presenza”
Ma come fai a sedermi accanto quando hai scritto questi versi?
Ma come fai a camminarmi a fianco quando conosci queste accelerazioni?
Ma come fai a chiedermi di salire a casa tua quando abiti cosi in alto?
E poi abbiamo bevuto dallo stesso bicchiere, ascoltato la stessa musica, attraversato gli stessi sogni.
Ma dove eri quando pisciavamo dallo stesso muro?
Ma cosa facevi quando eravamo in trincea a difenderci dalla stessa noia?
Ma come hai fatto a nascondere il nettare di queste melodie, quando si alzava la voce affinché il silenzio non si rilevasse.
Cristo ma chi sei?
Io ho conosciuto il passare del tuo tempo.
Io sono stato accanto alle tue ossa ma non ho conosciuto il fantasma che era in te.
Fantasma che rideva di me, che mi saltellava intorno e forse mi diceva: “Un giorno piccolo amico mi rivelerò e tu rimarrai a tossire anni lontani con visioni surreali”.
Da domani voglio osservarti meglio, voglio cedere alla curiosità di rivederti bambino.
Voglio ripercorrere la nostra storia e da dietro alla porta del tuo rifugio, voglio scoprire dove nascondi il tuo diario. Il tuo diario deve essere uno scrigno magico,
Voglio togliere la polvere ai tuoi ricordi sparsi in quella stanza.
Voglio risentire i tuoi vecchi 33 giri, chissà se funzionerà ancora il tuo giradischi.
Voglio rileggere i tuoi libri e ricopiarmi tutte le sottolineature.
Voglio comprendere le emozioni che ti hanno elevato dal mio sotterraneo.
Voglio sfogliare i tuoi quaderni dove appuntavi le tue speranze e rivedere la tua barocca scrittura, con penne colorate, perché quei colori diversi, oggi li ritrovo in questi arcobaleni di parole.
Voglio assaporare l’amaro della tua solitudine, che è stata il propulsore alle tue fughe e attingere dai tuoi ritorni la linfa vitale per questi versi.
Certo le emozioni non si possono toccare ed è questo che non si può capire e che io non ho capito.
Abbiamo visto gli stessi cieli, riscaldati allo stesso sole, sognato la stessa luna, tuffati allo stesso mare, calpestato la stessa terra, partiti con la stessa nave, rincorso lo stesso treno, fatto lo stesso autostop, perso lo stesso autobus: ma non è stato questo a ritrovarci diversi.
Infatti basta un attimo, una distrazione e ci si ritrova diversi.
E tu sei partito, ed hai comprato un nuovo libro. L’hai letto in un deserto pieno di sole e poi hai fotografato un bambino in un mercato turco, ti sei perduto seguendo la voce di una donna araba e ti sei imbarcato in viaggi mediterranei, in terre che ti hanno fatto comprendere i tuoi percorsi.
Qui, vicino a me, non potevi comprendere: che ognuno di noi è un’isola alla deriva, impossibile da capire, da fermare, da imprigionare.
E così sei salito su scalinate bianche e hai trovato chiese e preghiere diverse, cori antichi e nuovi si sono mescolati a sorrisi di donne, coperte da veli di diverse religioni.
Quello che non hai potuto toccare con le tue mani e assaporare con la tua bocca l’hai cercato nelle letture e hai flagellato il tuo animo fino a farlo diventare parole e versi.
Hai scoperto distese bianche di neve e dietro fiordi come mostri hai trovato non la morte ma la resurrezione in trecce bionde e ti sei perduto in occhi azzurri.
Hai capito che a qualunque latitudine tu possa scappare troverai un’orma della tua essenza di uomo, perché tu hai imparato a leggere tra la polvere, tra la neve, tra le nuvole, tra i raggi del sole e in un amplesso di una donna sconosciuta ti sei riportato indietro nel tempo: tra le braccia di tua madre, nella tua casa, nella tua isola, nella tua stanza, sul tuo letto, sul tuo cuscino dove hai ritrovato i tuoi sogni.
Ma non basta, hai torchiato il tuo passato, hai ingoiato lacrime di delusioni, hai spaccato la pietra del tuo orgoglio, ti sei immerso nell’inchiostro della paura, sei uscito indenne dal turbine della confusione, hai strappato migliaia di fogli che rimanevano candidi, torturato centinaia di libri, interrogato decine di specchi che riflettevano ogni giorno una ruga di più.
Ecco, adesso ti vedo e beviamo tranquillamente al bar, tu telefoni con un oggetto che posso toccare e parli con una voce che riconosco e gesticoli con l’altra mano con cinque dita e poi mi guardi e mi sorridi come una volta e poi mi metti la mano sulla spalla e mi dici:
“Non ti preoccupare di niente, tu hai una famiglia!”

Vincenzo Ambrosino

 

Ringrazio di vero cuore Antonio De Luca per i suoi generosi commenti e dopo aver letto le sue poesie mi sono accorto che abbiamo qualche interesse comune, Biamonti prima di tutto che personalmente ritengo uno scrittore di valore europeo la cui scrittura è frutto di un grandissimo e faticoso lavoro di sottrazione. La scrittura di Biamonti non spiega … è un invito a riflettere, a immaginare, a sognare a volte, il paesaggio è quello del ponente ligure, quello che si vede da casa sua. Su ogni cosa prevalgono i riflessi e i colori del mare, il mare che assedia la costa, il mare aperto, il mare visto dall’alto, il mare visto attraverso i pini … il tremolare della marina di Dante. La macchia mediterranea è descritta con competenza e con precisione. Scrittura, paesaggio, personaggi, vicende, sono essenziali, veri, un invito a riflettere su di noi. Biamonti ha scritto solo quattro libri (ha lasciato appunti per un quinto libro che non riuscì a scrivere, appunti che credo siano stati anche pubblicati, che ho sentito commentare dalla signora che ha curato gli altri quattro scritti). MI ha colpito quando questa ha detto che Biamonti ha scritto anche quattro o cinque volte lo stesso periodo, sottraendo parole, spostando parole al loro interno, e le varie scritture sono così curate che si potrebbero inserire l’uno o l’altra versione senza modificare l’andamento dello scritto) Insomma Biamonti lavorava duro per scrivere, e questo fa sì che io lo ami moltissimo.

Altro interesse che mi lega ad Antonio è Predrag Matveieveic “Breviario Mediterraneo” un libro fantastico, poetico, vero, intessuto di storia, di miti e di leggende proprio come il nostro mare, con i suoi porti, i fari le isole …e Pessoa, Il libro dell’inquietudine e altri scritti, compreso “Il poeta è un fingitore” curato da Tabucchi. Il libro dell’inquietudine è per me fonte di commozione e di riflessione.

E…Marseille le viexport … quando andavo a Fos a ispezionare navi o per altra ragione mi fermavo la mattina, il più presto possibile, a Marseille le vieux port per fare colazione in qualche piccolo bar nel quale c’era sempre qualcuno che aveva trascorso la notte da qualche parte – Non navigavo più ed era questo un modo per sentirmi ancora marinaio…

Belle e strane le poesie di Antonio. Belle perché parlano al cuore di chi legge, suggeriscono immagini, pensieri, riflessioni di ogni tipo … anche se io ho difficoltà a “comprendere le poesie” – le leggerò ancora.

Ancora un ringraziamento per Antonio e la mia ammirazione per il suo scrivere, e un poco di invidia ler la Janglada de pedra (Zattera di Pietra).

Immagino una luce accesa in una casa alta sulla scogliera e Antonio in compagnia di parole e pensieri intento a scrivere… forse scrivere significa davvero desiderio di parlare, di raccontare, forse significa varcare i confini della magia del sentimento, che ci pervade a tratti nella vita di tutti i giorni, ma al quale non vogliamo cedere; forse con la scrittura vogliamo fare emergere sensazioni sconosciute o scordate, situazioni a volte volutamente dimenticate o cancellate forse scrivendo è possibile destare sensazioni assopite come in una confessione interiore che chiede sincerità e coraggio… quindi se così è … Buona scrittura Antonio!

Gianni Paglieri

 

Per me sono belle le tue poesie!
Annelise Alleva, scrittrice e poetessa