Dedicato ad Antonio
E tu hai creato anche per noi questo regno,
imprendibile regno per sconosciuti.
Chi vi è giunti annunciati come lo siamo stati noi
sono morti al mondo per rivivere nella letteratura.
Ora siamo capaci di scrivere, sentire, percepire
la voce dei fantasmi delle stagioni passate.
Siamo stati iniziati ad una vita bucolica
che solo i puri riescono a far rivivere.
All’alba, si rinnovava il miracolo
quando si partiva da casa,
assonnati, ancora sognanti, si andava
oltre il monte che una volta superato faceva
da argine alle nostre paure.
Davanti il cielo e il mare….. l’infinito.
Protetti dal mondo, vivevamo un altro mondo.
Il miracolo si ripeteva:
in autunno quando le viti erano cariche,
uva di paradiso, grappoli carnosi,
i nostri giovani corpi pronti alla raccolta
di giorno, di notte la vendemmia dell’amore.
Il miracolo si ripeteva:
in inverno quando cercavamo
bagnati e infreddoliti
quel tepore che il nostro rifugio ci donava
e noi, accovacciati come lattanti intorno
ad un piccolo tavolo pieno di sorprese
trovavamo un nuovo corpo materno
per prolungare all’infinito la nostra eterna infanzia.
E il miracolo si ripeteva:
nella tarda primavera,
“l’impareggiabile spettacolo del ritorno
delle quaglie dall’Africa con i cani in ferma”.
Negli orti i carciofi e le fave
appena colti profumavano le cantine,
gli asparagi crescevano ovunque,
Eravamo sicuri di essere in vita!
Abbiamo ammirato incantati come serpenti al sole, l’antica pazienza
di mani callose, mai stanche a districare i nodi della sopravvivenza
tra filari bassi di viti.
Ma oltre la fatica, oltre il sudore, oltre la necessità
abbiamo ritrovato la condivisione di un sogno.
Abbiamo imparato da veri uomini a saper giocare in vita e con la vita.
“L’uomo che non gioca ha perso
per sempre il bimbo che viveva in lui…”
la nostra casa l’abbiamo costruita come un giocattolo
e ci abbiamo giocato dalla mattina alla sera.”
Inconsapevolmente, siamo diventati parte di un rito
che si ripeteva immutabile per tutto l’anno:
Il tempo, i gesti, le parole, le frasi, i giochi, gli amori, le passioni,
percorrevano gli umori, i sapori, le melodie delle quattro stagioni.
Stavamo al Fieno perché uomini liberi,
ma seguivamo regole non scritte, non imposte, suggerite
da un regista divino.
“Quando il sole, con i primi raggi,
toccava gli scogli,
batteva il tempo della cosiddetta marenna.
“U sole sta pezzecanno” si sentiva in tutta la valle.
“Viene a beve!” era il grido di una memoria collettiva
che per 200 anni si è perpetuata ogni giorno.
Dai terrazzamenti vedevi i vignaiuoli,
annunciati dall’abbaiare dei cani
raggiungere la cantina di turno.
Ognuno nel proprio zaino portava qualcosa da casa,
preparato dalla moglie la sera prima e nell’aprirlo,
vedevi un sorriso sul loro volto,
come i bambini quando rompono l’uovo di cioccolato a Pasqua.
Spesso loro stessi non sapevano cosa sarebbe uscito da quello zaino”.
Hai rubato per noi la saggezza di Adalgiso,
ci hai svelato la fantasia di Ninotto a Feccia,
ci hai fatto comprendere la poetica di Giustino,
inseguire la purezza di Ciccillo Damigiana,
toccare la semplicità di Luigi,
imitare l’allegria di Gioì,
sognare la forza di Pasquale,
aspirare alla fedeltà di Silverio la Bufera,
ammirare la religiosità di Silverio Mazzella,
raggiungere la coralità di Benito.
Anche noi, come il tutto al Fieno siamo arrivati all’incontro con l’armonia.
Grazie per tutto questo amico mio.
Vincenzo Ambrosino
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Riflessioni su Vinea loquens, di Antonio De Luca
da Ponza Racconta
di Rosanna Conte
In Vinea loquens, Antonio De Luca compie il suo Viaggio in spazi ampi e distanti, ma accomunati dall’originario Thalatta.
Il suo mare ha la matrice della cultura mediterranea: è un ponte che unisce e consente il passaggio di una pluraltà umana in continua osmosi che riceve impulso da un centro particolare: il Fieno.
In questo microcosmo, come in un cristallo, si rifrange la vita nella sua essenzialità. Le persone che lo fanno vivere o l’hanno fatto vivere, sono le voci umane rimaste intatte nel tempo, sempre uguali a se stesse, al di là dello scorrere dei secoli e dei millenni.
Le loro certezze sono sicure come quelle rocce del Fieno in cui puoi scavare la tua cantina e sono quelle che hanno accompagnato l’uomo nel suo percorso attraverso il tempo: il rispetto per la terra e gli animali, la cura delle piante, la solidarietà, l’ospitalità…
Giustino, Silverio, Adalgiso, Amedeo, Liberato, Aniello e donne come nonna Lucia, Carmelina, Civitella, e tutti i vignaioli del Fieno così amorevolmente descritti da Antonio, vivono gli stessi valori del mondo greco arcaico che aveva il suo perno nella sacralità della vite e dell’ulivo.
L’offerta del bicchiere di vino è il gesto più visibile, quello che sintetizza la nobilità di questa parte scelta di umanità che può vivere al di fuori o al di là delle trappole del mondo, dal consumismo all’egocentrismo, alla corsa sfrenata all’arricchimento mentre si perde il rispetto per l’altro.
Scegliere di coltivare la vigna al Fieno è un gesto che coinvolge la persona nella sua totalità e l’impegna per l’eternità: può farlo solo chi ama la terra e la vigna, non teme la fatica e la solitudine, ha una ricchezza interiore che gli fa compagnia in ogni momento quotidiano. È una scelta di destino, e Antonio ha scelto quello che il profondo del suo animo vuole.
Il movimento circolare che caratterizza la narrazione nella distribuzione dei capitoli, è anche presente nell’esplorazione del microcosmo Fieno, sebbene in forma contratta per la quantità di personaggi concentrata nel ristretto spazio/tempo del luogo, con incontri e reincontri che hanno il sapore della staticità di ciò che non ha tempo.
Ma è anche il movimento di Antonio che, come il sasso gettato in acqua genera dei cerchi concentrici, così si espande nei suoi incontri in punti cruciali del mondo, dalla Lisbona di Pessoa alla casa preferita di Neruda a Isla Negra, e incrocia altri cerchi che si allargano, come quelli di Marina Longo, che porta il sapore e il colore di Teheran, o di Joao Andrade che gli fa assaporare il vino dell’Alentejo impregnandolo dei ricordi della ‘Rivoluzione di garofani’, o di Raul che nel mezzo della pampa argentina lo riporta a Ponza attraverso il sapore del vino che gli offre, il dono dell’ospitalità e il riconoscimento della sua isola da parte di Teresa, sua moglie, il cui padre aveva lavorato alla miniera di bentonite.
E’ in questi incroci che vediamo come il vignaiolo non sia un semplice produttore di vino, bensì colui che offrendoti la coppa ti invita a raccontare, a parlare di te, del tuo paese, dei tuoi sogni, delle tue avventure.
Il profumo del vino, sempre piuttosto simile in qualsiasi paese sia stato prodotto, è un buon viatico all’apertura dell’anima e nell’anima di Antonio, accanto a ciò che può dare piacere, c’è il dolore per la perdita della sua isola, il cui degrado è irreversibile, insieme al rifiuto del proprio paese sordo al dolore umano e prono al clericalismo.
Si salva il Fieno protetto dal monte Guardia e dai vignaioli che lo vivono. Ma fin quando durerà?
Vinea loquens è la bella testimonianza di questo mondo ancora intatto scritta con un pizzico di nostalgia perché si avverte, attraverso un velo di malinconia, che laggiù potrebbe non esser sempre così.
Antonio De Luca, a memoria futura, ci fa sentire che la fine del mondo sta lì, dove esso ha inizio e con l’antica sapienza si può riprendere ilViaggio.
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Sul recente libro di Antonio De Luca. Il senso dell’andare
da Ponza Racconta
di Sandro Russo
Non so se ricorda, Antonio, che alla gittata di cemento dell’impiantito della baracca o, ‘alla ponzese’, barracca, a punta Fieno – per quello che avrebbe costituito nucleo base della sua casa-rifugio, a jancada de pedra – c’ero anch’io.
Avevamo tutti circa 35 anni di meno, e portare su a spalla dal mare le sacchette di cemento, dall’instabile approdo sotto la cantina di Giustino, non ci faceva paura. Anche così, a metà salita mancava il fiato e le gambe si piegavano sotto il peso.
Non che nessuno di noi avesse ben chiaro quello che si stava facendo. A quell’età si seguivano solo i sogni, e più folli erano più ci si credeva.
E ricordo Antonio come invasato, preso da un’eccitazione febbrile, stare dappertutto e mai dove serviva; dare ordini e contrordini… E porco qua… e porco là..!
Di quell’avventura abbiamo riparlato (e riso) per anni.
Non era il solo a essere pazzo – o a fare il pazzo – a quei tempi.
Qualche anno prima anch’io ero approdato a Palmarola con due pale, un piccone e un paio di caldarelle, con l’idea fissa che su quella falesia bianca già trapuntata di grotte, avrei certamente trovato il posto per farne anche una per me.
Poi la persuasione paziente di mio zio Elio e più di un’ispezione in loco, mi convinsero a desistere: mi fa spiegato – mentre incredulo stavo a sentire e pian piano cominciavo a capire – che ogni palmo di quella roccia aveva un proprietario (o diversi proprietari, essendo proprietà rimaste indivise per generazioni) e guai a piantare un paletto o scavare una buca…
Ma per dire… Erano gli anni – nostri anagrafici e epocali – dell’immaginazione al potere.
“Gli anni più belli della nostra vita” – avremmo detto dopo – ma mentre li vivevamo non lo erano per niente!
A ripensarci adesso posso solo ricordare quanto eravamo confusi! Come partivamo d’impeto per i progetti più strampalati riversandoci dentro tutta l’energia possibile: la forza e l’entusiasmo della gioventù trionfante, la convinzione assoluta che altre strade non ci fossero.
Forse Antonio di tutti noi – incontrandolo di nuovo ad intervalli di anni ‘nel corso del tempo’ – è stato quello che più ha mantenuto, anzi ‘coltivato’ la sua pazzia. Venivo a conoscenza – da mio fratello Renzo, suo indefettibile amico – dei suoi andirivieni per il mondo, delle sue storie, dei suoi entusiasmi e furori. Sceglieva – o era dominato – dal suo demone (dáimōn) come ciascuno di noi dal proprio.
Nelle nostre vite abbiamo vagato qua e là (abbiamo anche avuto la fortuna di poterlo fare; in altri tempi non sarebbe stato possibile!), fatto incontri apparentemente casuali, iniziato e finito storie.
Mi ha sempre colpito molto uno scritto di Karen Blixen, la scrittrice danese de ‘La mia Africa’.
A Karen bambina raccontavano questa storia, che lei così rielabora nei suoi anni successivi: “Un uomo, che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna…
(…) Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna?”
Questa sensazione – di aver vissuto e agito quasi alla cieca – comincia a delinearsi ad una certa età della vita; quando si tentano dei bilanci, o una sintesi.
Anche il ‘nostro’ Tabucchi ne ha parlato in una intervista dei suoi ultimi anni. In questi termini: “…E’ come uscire a fare una passeggiata nella neve… tornare in casa e vedere nelle orme, dalla finestra, il senso che ha avuto il camminare”.
Il libro di Antonio, a mio modo di sentire, va in questo solco. È il sublime ‘dono’ della scrittura permettere di guardare indietro alla strada che si è fatta e ripensarla… Non solo! Mettere in ordine fili sparsi e cercare una trama, una traccia complessiva attraverso tante albe e tramonti, per cammini impervi, attraverso lotte, dolori, amori…
A volte possiamo esserne sconcertati, a volte ammirati: sempre coinvolti, perché in forme e modi diversi è la nostra storia.
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All’artista e poeta Antonio De Luca.
Dalla mia casa, che non è al Fieno! L’aria e il piccolo panorama sta diventando rosa. Ponza è tutta bella e interessante ma chissà perché solo l’anfiteatro del fieno partorisce poeti ed esteti .Lei scrive in uno stato di commozione estetica affettiva e letteraria. La lettura del suo breve libro-ricordi (l’ho letto tre volte) mi ha profondamente commossa. Riconosco un sentire gemello. Molte volte sono stata al Monte Guardia anche in circostanze difficili. Amo molto quelle zone dopo le vendemmie. Vado anzi andavo alla ricerca di piccoli grappoletti d’uva rimasti nei filari. Estasi solo mia. Per Ponza si potrebbe fare, da voi “colti” molto ancora ma non c’è traccia di questa volontà. Hai! Sono una vecchia signora, mi porti tra i bulbi di fresie. Ne ho la terrazza di Roma tutta fiorita in primavera e li ho regalati a mezza Italia.
La saluto con fraterna simpatia Armandina.