Bonatti e De Luca, l’incontro tra il grande scalatore e lo scrittore ponzese

Le mani di Walter Bonatti

Alcuni giorni fa leggevo una poesia di Ghiorgos Seferis, uomo e poeta di costante riferimento. Il libro mi fu regalato dallo stesso editore e traduttore Nicola Crocetti durante una mia visita a Milano. Poesie, uscito nel 2017: a pagina 90 si trova Descrizione.

Così alcuni versi:

Lei ha gli occhi velati, si accosta a quella mano scolpita
la mano che ha tenuto la barra del timone
la mano che ha tenuto la penna
la mano che si è distesa al vento
tutto minaccia il suo silenzio

Questa piccola storia la porto dentro da quando ho incontrato e conosciuto Walter Bonatti, circa un 15 anni fa, qui a Ponza. La storia però nasce nel 1965, l’anno della scalata del Cervino.

Erano gli anni ‘60 e a casa mia, a Ponza, arrivò un televisore, un enorme scatolone Telefunken. Avevo circa dieci anni e tutte le sere era obbligatorio guardare il telegiornale delle ore 20.00. Tutti, anche i nonni, intorno al tavolo con sotto il braciere. In religioso silenzio bisognava ascoltare le notizie dall’Italia e dal mondo. Ricordo che non avevo grande interesse ad ascoltare tutte quelle notizie.

Noi ragazzi di allora avevamo ben altro a cui pensare in un’isola selvaggia come Ponza. Le strade dell’isola e il mare intorno offrivano un palcoscenico dove vivere una libertà totale. A casa si ritornava col buio dei vespri e per questo quasi sempre ricevevamo botte e castighi.

Ma una sera venni catturato da una notizia, vedendo alcune sfocate immagini. Un’immediata e immensa curiosità mi prese totalmente. Un uomo, solo, aggrappato a una grandissima montagna, doveva raggiungerne la vetta, tra ghiaccio, vento, tempeste. Ogni sera il telegiornale dava notizie sulla posizione e il cammino di questo scalatore. Era sempre un puntino scuro che si faceva fatica a identificare, sullo schermo bianco e nero. Ma tutte le sere io stavo lì ad aspettare nuove notizie su quest’uomo.  E col passare dei giorni questa storia diventava il mio principale interesse quotidiano.

Ricordo che in classe ne parlavo con i compagni di scuola e persino al maestro. Al mattino raccontavo al compagno di banco l’andamento del cammino dello scalatore solo. La storia iniziava a entrarmi dentro e, con una certa apprensione, ogni sera aspettavo il collegamento per vedere e sapere. Tanto che prima di addormentarmi mia madre mi diceva “visto che ti interessa tanto allora fai una preghiera per lui affinché raggiunga la vetta, e poi applicati a imparare le poesie così come stai seguendo questa storia”. Era diventata la fonte di una quotidiana preoccupazione, ma soprattutto di grande interesse. Ma allora non pensavo al motivo di questo avvenimento, alla ragione per cui quest’uomo tutto da solo, in mezzo ai pericoli e alle fatiche, facesse tutto ciò, mettendo a rischio la sua vita, per arrivare sulla vetta di una montagna. Così iniziai a conoscere e seguire meglio questo scalatore solitario, il cui nome era Walter Bonatti, e da allora è rimasto per sempre nel mio immaginario, tra i miei interessi.

In seguito avrei seguito ogni sua impresa e avventura. L’alpinista, il viaggiatore, il fotografo e infine lo scrittore. Le sue avventure per il mondo mi portavano con lui. Lo accostavano ai racconti-favole dei miei nonni e di mio padre, che mi venivano raccontati da bambino per acquietarmi e farmi addormentare la sera. Loro, navigatori per i mari del mondo. Seguivo Bonatti sui settimanali e leggevo i suoi libri. A volte imitavo il suo modo di scrivere: ricordo che al Liceo fui ripreso dal professore di Letteratura varie volte, perché nei temi usavo un linguaggio giornalistico e descrittivo, con uno spiccato modernismo. I Barnabiti richiedevano ben altro linguaggio da un loro studente.

Uno dei suoi libri lo tengo esposto nella mia casa-rifugio del Fieno nell’isola di Ponza, come fosse una reliquia o un quadro. Ogni tanto lo apro e rileggo qualche frase e penso alle sue grandi imprese, ai suoi viaggi intorno al mondo. Nei lontani luoghi inesplorati dove ancora possiamo parlare di primitivismo antropologico e culturale.

Circa quindici anni fa ho invitato l’amico Stefano Vicario, regista di cinema e di televisione, figlio del regista Marco Vicario e dell’attrice Rossana Podestà, ad una merenda simposiale nella casa-rifugio. Stefano entrando mi chiese il perché di quel libro in quel posto. Quindi gli ho raccontato la storia e lui ha detto “bene, ti porterò in questo luogo Walter Bonatti”.

Rimasi interdetto: non capivo se si trattasse di uno scherzo o di una promessa. Stefano allora mi raccontò che Bonatti da anni era il compagno della madre e che questa sarebbe stata per lui una missione. Dopo circa un mese, in una mattina d’agosto, mentre ero indaffarato a lavoro, mi sento chiamare da una voce che non riconosco. Mi giro e vedo a pochi metri da me l’uomo del Cervino, a cui da bambino la sera dedicavo una preghiera. Il grande Walter Bonatti mi stava davanti.

Non ricordo bene quale furono le prime emozioni. Ricordo bene che ci stringemmo a lungo la mano, appoggiando l’altra mano sulle nostre spalle. Gli raccontai quello che pensavo di lui e cosa fosse stato lui per me da piccolo. Bonatti ascoltava sorridendo, interessato, e continuava a tenere la sua mano sulla mia spalla, come se ricambiasse la mia gratitudine e le mie emozioni.

Quelle mani, reliquie, che avevano scalato, tra mille sofferenze e pericoli le più alte vette del mondo, quelle braccia, che avevano abbracciato popoli sconosciuti e strette terre e acque di tutto il mondo. Così io, mentre parlavamo, gli prendevo la mano: era per me un gesto naturale, come se fossi spinto da una forza dentro di me. Una forza che non apparteneva alla ragione. Durante questo nostro incontro, involontariamente, il mio sguardo si è rivolto a quelle mani: allora tutto un mondo si è aperto. Improvvisamente, ho ricordato tutto di lui, le sue imprese, le scalate e i pericoli vissuti, i grandi viaggi da solo intorno alla terra. Non toglievo lo sguardo dalle sue mani e lui se ne accorse. Allora mi prese per il braccio e mi chiese quando lo avrei portato nel mio rifugio, già sapendo dove bisognava andare.

La mattina dopo, quasi all’alba, insieme a Stefano, con la piccola Lusitana -la mia barca di allora- uscimmo dal porto e ci recammo al Fieno. Ricordo che aveva una macchina fotografica a pellicola. Rimase stupefatto dal passaggio attraverso i due faraglioni della Madonna. Gli parlai un po’ della geologia e della storia dell’isola. Gli dissi che scrivevo poesie e lui pretese che gliene leggessi qualcuna. Arrivati allo scoglio di attracco, corse a prua e con quelle mani, legò la barca allo scoglio.

Vidi questa scena, e pensai a quelle mani sul K2, sulle vette del mondo, tra ghiacciai, foreste e luoghi inesplorati, ora che stavano legando con una grazia da ballerino del Bolshoi, la mia piccola barchetta. Sentii dentro di me un’arcaica poesia.

Ebbene per tutto il tempo che trascorsi con Walter Bonatti -una mezza giornata- il mio sguardo era sempre rivolto a quelle sue mani, alle sue braccia, a quel viso incontrato per caso in una televisione in bianco e nero. Mani michelangiolesche, come se fossero state scolpite nella roccia. Mani grandi, curate dalla vita, ossute e dita lunghe e larghe, con muscoli fuori dal normale. Dita muscolose. La pelle liscia e scura, con dentro le cicatrici delle gioie, della fatica e del dolore. Quelle mani sono tra le cose più belle che io abbia stretto. Quelle mani che avevano toccato rocce delle montagne più alte al mondo, che avevano sofferto l’impervia natura del racconto umano.

Poi lui prese il suo libro e mi scrisse una dedica da me letta solo molto tempo dopo. Avevo paura di leggere parole scritte da quelle mani. Ricordo che bevemmo Utopia e mangiamo gallette, il pane dei marinai, con pomodori e alici. Aprimmo una scatola di sardine sott’olio del Portogallo: mentre parlava dello stretto di Magellano, accennava al mondo himalayano.

Trovandomi una mattina con l’amico navigatore Cesare Tornielli a parlare di questa storia. Cesare mi raccontò che lui da bambino aveva conosciuto a Cortina, Lino Lacedelli, compagno di cordata di Bonatti, della famosa scalata al K2. Aveva notato anche lui le mani di Lacedelli ed erano simili a quello che io raccontavo di Bonatti. Parlando di quella scalata, Lacedelli, sminuendo se stesso con grande umiltà e modestia, virtù di pochi grandi uomini, disse che tutto era avvenuto grazie a Bonatti. Walter Bonatti era stato l’artefice principale dell’impresa del K2.

Grazie Walter Bonatti che quel giorno hai reso la mia vita più bella. Grazie per tutto quello che mi hai fatto conoscere, per le emozioni che mi hai fatto provare. La costruzione di una coscienza a tutela della natura e la terra. Il religioso rispetto per la fatica dell’uomo. L’amore per la solitudine, per l’avventura, il rischio, il viaggio. L’amore per i popoli, le differenti culture. La presa di coscienza che sulla terra esiste un solo popolo, una sola razza, un solo Dio, e che questa terra va amata e protetta, perché è l’unica che abbiamo.

Sicuramente i tuoi ricordi, le tue imprese, lo spirito del viaggiatore estremo, sono stati per me la dolce compagnia e la guida, in questi anni vissuti a vagabondare per il Mediterraneo. Le tue montagne sono state la tua scuola; la tua scuola mi ha insegnato a stare da solo per saper stare con gli altri. Intorno ai 30 anni, un amico di allora, Pietro Liberati, guida alpina, anche lui scalatore solitario, mi legò ad una corda e mi fece salire in cima al monte Rosetta, tra le Pale di San Martino. Naturalmente fu un gioco, ma per me, piccolo uomo di mare e di porti, fu un’indelebile avventura, rimasta pietra miliare nel percorso di una vita fatta di viaggi e avventure.

In Cile vidi da lontano le Ande e immaginai Walter Bonatti lì su quelle rocce, come sempre da solo, in una minuscola tenda, con la sua sola poesia, il suo essere solitario e assorto in chissà quali pensieri. Ogni qualvolta mi son trovato in un luogo fuori dalle rotte dell’ovvio, ho pensato alle sue imprese. Dalle scogliere alte del Cile, alla Pampas argentina, al deserto del Sahara. Perché è grazie soprattutto a te, caro Walter, se in quelle sere d’inverno, quando ti vedevo un puntino sbiadito in un televisore, mentre fuori l’isola nera era avvolta in tempeste di vento e di mare, e la nave non arrivava, e tutta la casa tremava, sentii nascere in me quel piccolo spirito di sfida e coraggio per l’avventura. Una vita in cui lo scorrere dell’esistenza umana l’ho vissuto tra luoghi solitari, rifugi, bivacchi, dove ho incontrato la bellezza dell’uomo nel suo vivere quotidiano, nel vivere le cose semplici, povere e importanti. È lì che risiede ancora l’alta dignità dell’uomo, l’essenza della vita, dove l’amore è sempre il tutto.

Nel DNA dell’uomo dicono ci sia il due per cento dei nativi americani, cresciuti nelle steppe russe, prima che emigrassero. Nel mio DNA, mio padre e mia madre ci hanno messo la meraviglia per il mondo e la sua poesia, la voglia di avventura e di conoscenza, di stupirmi sempre, del socialismo edificante. Tu, come i grandi della poesia e della filosofia, caro Walter, ci hai messo lo spirito del pericolo, del non-dovuto, la consapevolezza dell’essere solo, del rispetto per la sfida di esistere, l’inviolabile spirito dell’essenza e del sogno. Il fuoco della memoria come nella poesia greca. Un amore per i luoghi più lontani della terra, per i popoli liberi e solitari, che siano Berberi, Tuareg, Sami, Inuit, nativi delle Americhe, dell’Alaska, della Terra del Fuoco, o gli ultimi indigeni della terra. Sta lì il mio posto nel mondo, la mia poesia, la voglia di innamorarmi.

Quella letteratura, che fa vivere nell’oltre, di rimbaudiana memoria. Le tue storie ai confini dell’umano, le tue mani stanno sempre lì, al rifugio sulla scogliera, in quel polveroso scaffale, all’ultimo mio campo base -come lo chiamasti- ancora a presenziare storie, scalate, nuovi incontri e avventure. Hai lasciato nelle piccole stanze che mi accolgono il sorriso e la quiete di chi conosce la grande virtù e la grazia di viverla. Con te, sullo scaffale in cucina risiede un altro grande saggio, il cileno Francisco Coloane, lo scrittore, il baleniere, l’allevatore, il marinaio, l’esploratore, il naufrago, colui che per vivere ha fatto tutto: vi fate compagnia, anzi ci facciamo compagnia. Dicesti che lo avevi conosciuto nel viaggio in Patagonia.

Voi due che ancora e sempre abitate in ogni angolo della terra, insieme a tutti gli uomini della terra, senza distinzione di colore, di cultura, di denari e religioni: voi appartenete al Mito. Ed è nel Mito che si incontrano gli Dei, quegli Dei che non vanno più via.

Dobbiamo sognare per salvarci -mi dicesti nel salutarci- mentre le nostre mani si stringevano forte.

Le mie piccole e fragili mani tra le tue grandi mani, fatte di carne e di sangue. Le tue mani come quelle di mio padre e mia madre, dei nonni, che mi insegnarono a camminare, a sorreggere e ad aggrapparmi, quando le tempeste infuriano.

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