Commento Prof. Catenacci

Chiamatemi Ismaele

Un’isola archetipica, reale e illusoria, la sua Ponza, domina questa
poesia e lo sguardo immaginativo di Antonio De Luca. E’ un’isola
relitto che si staglia affranta e al tempo stesso salvifica come una
“zattera” “in mari sconfinati e deserti”, “vagabonda” come la sacra
isola di Delo in un inno del poeta greco Pindaro. La natura, nei suoi
aspetti più elementari e aspri, la rende materia: sole cocente, lava,
argilla, frammenti di roccia. Non manca la presenza rarefatta di
qualche uomo e del suo lavoro (“le vigne”, “gli ulivi”) che cercano di
addolcire la durezza della natura. Ma, alla vista del poeta,
improvvisamente l’isola, ignota a ogni carta nautica, si erge sulle
acque come una creatura fantastica, “invincibile” e inafferrabile. In
evidente rapporto analogico con il contesto marino, l’isola si
trasforma nell’arcana balena del nostro immaginario letterario: Moby Dick (“il bianco leviatano”). Nella scia di questa citazione si
sprigiona la memoria mitica del mare. Dalle tempeste invernali si
levano versi e suoni antichi, custoditi come un tesoro segreto e
pericoloso dalle onde: le storie degli eroi che dolorosamente e
caparbiamente percorsero gli umidi sentieri del mare, i guerrieri di
Omero e gli spaesati Argonauti. Il poeta si sente come Ulisse
nell’Ade, tra le ombre dei morti. Prudente, come lo stesso Ulisse
quando approda all’isola dei Feaci, avanza per nascondersi. Ha
imparato a essere Nessuno, come nell’antro del Ciclope Polifemo.
Ma ai suoi lettori e interlocutori, nuovi Ciclopi, il poeta offre nel finale un altro nome. “Chiamatemi Ismaele” recita l’ultimo verso, che ripete le prime parole del romanzo di Melville. Dopo Ulisse, il poetasi identifica in un altro marinaio smarrito e sopravvissuto: Ismaele, l’unico scampato alla furia di Moby Dick, perché l’isola archetipica esige una voce che racconti la salvezza crudele dei suoi approdi.

Prof. Carmine Catenacci
Filologo Università di Pescara