Salvatore Quasimodo, nostro fratello

Salvatore Quasimodo nasce nel 1901 a Modica, un piccolo paesino della Sicilia.
Il padre è ferroviere capostazione e il bambino è costretto a seguire il padre, non ha una dimora fissa, se non la casa dei nonni dove spesso si rifugia. È in questo primo clima che l’anima del poeta inizia a formarsi. L’infanzia tra i paesini fatti di poche case, aranceti, vigne, scogli, spiagge, mare, gente comune, treni, stazioni abbandonate, binari, pescatori, reti, barche, moli, paesaggi essenziali di una Sicilia di inizio ’900, una famiglia di grande dignità e l’umanità dei nonni, sono il palcoscenico esistenziale dove Salvatore cresce e dove inizia il suo percorso intimo e spirituale.
I continui cambiamenti di paesaggi, ma soprattutto quelli affettivi – cambia spesso scuola, quindi sempre nuovi compagni e maestri – entrano lentamente nell’anima del poeta e danno forma alla sua sensibilità ed essenza, (iniziano a costruire dentro di lui tutto il suo essere esistenziale che poi verranno fuori in quei versi universali.
Noi andremo a considerare il primo periodo (poetico) del poeta; quello del suo arrivo a Milano e della scrittura dei versi di “Acque e Terre”.
Nel 1919 egli lascia definitivamente la Sicilia; emigra prima a Roma per frequentare l’università, poi sia per motivi lavorativi che di impegno letterario arriva a Firenze dove Vittorini e Montale lo chiamano a varie collaborazioni. Sono grandi amici e stanno bene insieme ma già il poeta è turbato dalla lontananza, i tre si fanno compagnia. Dopo aver vagato per varie città giunge a Milano dove si stabilirà definitivamente per insegnare all’università ‘Letteratura italiana’ – “per evidenti meriti accademici” – dicono le cronache letterarie di allora; infatti egli non era laureato in lettere ma bensì era un ingegnere. Qui il poeta inizia a macerare nel suo intimo – direi a vivere segretamente nel suo io – prende coscienza nel suo dentro, in quello spazio interiore, gli anni della sua infanzia, gli anni della spensieratezza, “gli anni della inconsapevolezza del sapere”, direbbe il poeta portoghese Fernando Pessoa.
La nostalgia del mondo siciliano, di ‘quel’ modo di esistere, si fanno cicatrici insanabili nel suo “io”, e la solitudine si dispera; intrinseca nell’opera, viene razionalizzata e risolta, diventa così verso e parola.
Quasimodo analizza i temi della sua solitudine che è poi quella dell’uomo di questo secolo, il quale prende coscienza del suo male di vivere, la solitudine metafisica, quella “del piano alto” come dice Tabucchi. Dell’uomo legato perennemente agli anni della fanciullezza, del passato, che non può sfuggire al sentimento di isolamento, dovuto proprio alla perdita di quel mondo; che peraltro non può più ritrovare. Ed ecco che la Sicilia – come anche Lisbona per Pessoa, Dublino per Joyce, Praga per Kafka, Istanbul per Pamuch, Buenos Aires per Borges, Parigi per Sartre, Marsiglia per Izzo – diventa simbolo di una felicità vissuta e perduta.
La terra, i paesaggi umani restano nell’immaginario del poeta, sono diventati materia esistenziale, parte del suo corpo, tutto il pensiero ne viene dominato, e quindi, inevitabilmente si trasforma in dolore. Più tardi Pessoa a riguardo dirà: “Quando festeggiavo i miei compleanni avevo la grande salute di non capire niente”. L’esilio che il poeta è costretto a vivere diventa quindi condizione del suo essere poeta. Cesare Pavese, descrivendo un analogo disagio, qualche anno dopo scriverà: “…vomito poesie per avere un terreno su cui poggiarmi”.
Nasce così nell’anima del poeta quell’angoscia esistenziale che origina dalla rievocazione del tempo passato, nella lontananza corporale, spirituale e umana dalla sua terra, la sua gente, la sua isola.
La solitudine di Quasimodo nasce appunto dallo sradicamento esistenziale dell’uomo, dalla condizione di perenne esule dalla sua infanzia, quella condizione di completezza non più raggiungibile che si fa insoddisfazione del presente. “Il bambino dell’innocenza” di Quasimodo – direbbe Antonio Tabucchi – attraversa questi paesaggi, si fa eterno, e dormirà nella sua anima, e in questo cantuccio. Il cantuccio del Pascoli nell’“Ora di Barga”, che rimane eternamente innocente nella sua infanzia immemorabile; quell’infanzia incontaminata dal malessere di una riflessione della realtà.
Allora, è in questo paesaggio siciliano il sentire della poesia di Quasimodo. Quella poesia dove la parola, imperfetta, non può esprimere il nostro segreto, il dolore, il mistero: questi sono inesprimibili. Allora il poeta cerca la parola dal significato estremo, essenziale, l’ultima, la più pura: dopo di essa il nulla. La nostalgia dell’infanzia, centro della sua pulsione poetica, intoccabile, si fa sacra, laicamente religiosa dinanzi alla dannazione dell’intelligenza speculativa che ci porta a riflettere sul reale, e diventa radice pianta e frutto di tutta la letteratura del ’900. E qui la Sicilia diventa Mito, grazie anche alla sua grande sensibilità per la cultura latina e greca. Quasimodo infatti, fuori dalla filologia classica, per primo traduce gli elegiaci greci le cui voci risuoneranno in tutta la sua poetica. La sua Sicilia è soprattutto la Magna Grecia, l’isola degli dei, dei miti, dei poeti e dei filosofi.

Mediterraneità
Ma è anche l’isola di Ponza, fin dalle sue origini, figlia di quei sentimenti e ideali, di quei paesaggi interiori, di quella spiritualità mediterranea greco-latina. “Tutti siamo figli di Omero” dice De Vigny, il poeta francese. Tutto il Mediterraneo è una sovrapposizioni di culture che poi nel corso dei millenni diventa unitaria, pur con tante sfaccettature; un’unica famiglia che si sposta tra le sponde di questo piccolo oceano, tra isole e città, generando nuove caratterizzazioni, nuove civiltà, nuova ricchezza. Culla di quella civiltà occidentale punto di partenza e riferimento per tutto il patrimonio culturale mondiale. Non si parte da Socrate e dal diritto greco-romano e dai vari codici, per ogni percorso culturale?
Troviamo in giro per coste e isole usi e costumi, abitudini e insegnamenti che furono nostri ma che vivono e si tramandano di generazioni in generazioni dalla Turchia alla Francia dai paesi Nord-africani, alle coste adriatiche, al mar Nero.
Il pane raffermo fatto in un certo modo per resistere al tempo, il pane dei marinai, le così dette gallette, si trovano da Istanbul a Beirut a Marsiglia; le mangiavano i nostri naviganti quando tornavano a casa. Il pane ‘simbolo’ delle religioni monoteiste è motivo di unione di popoli: quando cade un pezzo di pane per terra lo baciamo. Così in Anatolia, nelle case di tutto il bacino mediterraneo, i panettieri prima di informare il pane facevano il segno della croce come benedizione di ringraziamento. I germogli di grano che portiamo in chiesa per Pasqua: così avviene nelle chiese orientali copte e greco-ortodosse. Il mortaio per la farina o la pietra per macinare, fino a qualche anno fa stava nelle nostre case; ancora oggi lo troviamo nei paesi africani; tuttora in uso del bacino mediterraneo e anche nei popoli sahariani e orientali, in Iran, in Iraq, nel bacino mesopotamico e sulle coste dalmate. I marinai non hanno frontiere, ebbene in tutti i cantieri, troviamo gli stessi odori, gli stessi attrezzi e le stesse gesta del calafato; chi di noi non ha nella propria memoria l’odore della canapa imbevuta di trementina, così come il canto della cicala e dei grilli, che dalla Provenza al mar Nero allietano le estati mediterranee.

La parietaria (Parietaria officinalis) la troviamo su tutti i muri screpolati; cresce dove cade l’intonaco e ritrovarla in un luogo lontano dalla propria casa fa ritornare al proprio paese d’origine. Così molte altre piante – le aromatiche per esempio: dal rosmarino al basilico al timo – fanno parte del nostro bagaglio ancestrale.
Già Omero parlava del vino rosso denso delle isole. Ebbene non è quella pastosità, quell’acidulo dovuto alla presenza del mare a caratterizzare il nostro vino dopo tremila anni?
Ho incontrato bambini in Marocco e in Portogallo che giocavano d’inverno sulla spiaggia con le scarpe. Non lo fanno ancora oggi i nostri figli? Dello spirito mediterraneo invecchia prima il corpo e poi l’anima: troppo essa è ricca per arrendersi al tempo.
Tra i vicoli di Tangeri, di Marsiglia, di Tunisi i bambini giocano a rincorrersi, per poi sparire all’improvviso al richiamo delle mamme per la sera in arrivo. Camminiamo per città e paesi e tra i vicoli sentiamo le stesse voci; cambiano i vocaboli, ma la voce umana è la stessa, e gli odori di cibi e mercanzie in mercati e case ci uniscono in prelibati piatti, spesso diversi ma fatti con gli stessi ingredienti; sentiamo gli stessi profumi da Lisbona a Odessa nel mar Nero.
Qualcuno ha detto il Mediterraneo è un immenso archivio, una infinita biblioteca e un grande sepolcro. Noi possiamo dire che Ponza appartiene orgogliosa a quella stessa cultura. Nel nostro piccolo attraverso i secoli, i padri dei padri e ancora dei padri ci hanno nutriti di mediterraneità. Siamo figli legittimi di quella matrice, che spazia nel tempo e per i luoghi fisici; parte dalla Mesopotamia, passa per i Fenici e giunge fino ai nostri giorni.
Nutrire questa cultura, esserne consapevoli per poterla conservare, è nostro obbligo morale e civile; il contrario sarebbe la morte dell’isola e della sua comunità. Un popolo non sopravvive senza conservare e tramandare la sua storia e la sua secolare cultura.

La malinconia mediterranea
Anche noi su quest’isola, giorno dopo giorno, ci siamo nutriti – “già dal latte materno”, come dice lo scrittore cileno Francisco Coloane – delle stesse atmosfere che aveva vissuto Quasimodo. Paesaggi umani, affettivi, la dignità e l’etica del tempo, il lavoro duro, la fatica feroce che dal corpo passa nell’anima  la forgia e ne fa paesaggio interiore: il grande paesaggio delle emozioni che poi è quello che rimarrà in noi per sempre.
La nostra infanzia per vicoli e marine, quella vita fatta di essenzialità, saggia ed educatrice, il mare padrone assoluto del nostro destino nel bene e nel male, i nostri padri naviganti per i mari del mondo, le mani e i visi di pescatori e contadini come bibbie, mani che ci accompagnavano a scuola e ci nutrivano d’affetto e speranza, le partenze e i ritorni e così per tutte le vite dove si parte e si ritorna.
La nostra infanzia a Ponza non è diversa da quella di Quasimodo; quelle stesse voci ed emozioni sono penetrate nella nostra anima. La malinconia non è solo quella di chi parte, degli emigranti, della gente che lascia il proprio paese per motivi sociali economici e politici, lascia i propri affetti i luoghi natii. Siamo stati emigranti anche noi, ed abbiamo portato la nostra mediterraneità nel mondo. Ora, al contrario, accogliamo altri popoli che vengono da lontano per gli stessi motivi che indussero noi ad andare via. Accogliamo la loro cultura che arricchisce il nostro essere mediterranei!
Esiste una nostalgia più sottile e meno visibile, quella nostalgia di un paesaggio emotivo, umano e sociale che giorno per giorno inesorabile si sgretola sotto i nostri piedi e spesso ci inabissa. La nostalgia per un’etica che non ci protegge più e che a volte crea disperazione interiore, solitudine. Tutti ci siamo trovati a esclamare: – Ah! quei tempi di una volta!
Della ‘Grande Madre Mediterraneo’ abbiamo avuto anche qui a Ponza epigoni e cultori; personaggi che usciti dal chiuso dell’isola hanno affondato il vasto mondo e temi più ampi. Tutti scomparsi, purtroppo. Ma voglio qui ricordare Tommaso Lamonica poeta ed erudito; Giovanni Verbini, conosciuto da tutti come ‘Jepson’, navigatore e velista per tutti i mari del mondo e Gianni Silvestri, scenografo dei film di Bertolucci, uno in particolare “Il tè nel deserto’ dove la cultura dei nomadi del deserto, attraverso le voci e i volti di autentici tuareg, è presentata nella sua luce migliore
E poi la geografia della nostra Memoria, i luoghi che ci hanno visto crescere, che si trasformano lentamente, e che noi non riusciamo a conservare, a trattenere. Tutto queste emozioni e la natura stessa che ci circonda sono nel fondo di una nostalgia, che può essere consolatrice e ammaliante – come quando da soli ci troviamo in mezzo al mare o in un luogo amato – ma che a volte senza preavviso si trasforma in inquietudine e dà allora sofferenza e disperazione.
È allora che la Poesia ci soccorre!